All’inferno e ritorno, magari cantando “I’m the resurrection, I’m the life” degli Stone Roses. Potremmo immaginarcelo così, il Monumental stracolmo e in festa sotto il diluvio di Buenos Aires mentre il suo River Plate batte con un sonoro 3-0 i messicani del Tigres e alza al cielo la Copa Libertadores, la terza della sua storia dopo quelle del 1986 e del 1996.
Fenice River Plate. Diciannove lunghissimi anni d’attesa, per tornare sul tetto del Sud America. Un’enormità per una delle squadre più leggendarie e titolate di tutto il mondo. Ma questa vittoria ha anche qualcos’altro di speciale, ovvero la sensazione di essersi finalmente liberati di quell’incubo che li aveva investiti soltanto 5 anni fa, quando sull’orlo della bancarotta (che beffa per chi è soprannominato “Millonarios”) il River perse lo spareggio salvezza contro il Belgrano e scese in serie B per la prima volta nella sua secolare storia. Proprio al Monumental, teatro di gioie e dolori.
Come fenice che risorge dalle proprie ceneri, il River ha rimesso insieme i cocci, puntando sulla sua identità e la sua gente. Passarella, all’epoca presidente, affida la panchina ad Almeyda (che il giorno della retrocessione era in campo con la fascia di capitano), e vede tornare a casa El Torito Cavenaghi – che aveva fatto il diavolo a quattro con l’Internacional di Porto Alegre pur di tornare a giocare nel suo River – e Dominguez, dal Valencia. Addirittura arriva David Trezeguet, che rinuncia al buen retiro di Abu Dhabi per aiutare una delle squadre più gloriose d’Argentina a rimettersi in sesto.
La grande rimonta. Dopo un anno di purgatorio, il River torna in Primera Division, là dove gli spetta, e stavolta a guidarlo è un altro personaggio simbolo dalle club, Ramon Diaz, che per la terza volta torna ad allenare i Millonarios. E da queste parti non si diventa leggende così per caso, sono abituati bene al River. Diaz infatti vince il campionato 2013-14, e poi rassegna le dimissioni. Al suo posto arriva un altro grande ex, Gallardo, che porta il River a vincere la Copa Sudamericana (l’equivalente della nostra Europa League) e successivamente anche la Recopa contro il San Lorenzo vincitore della Libertadores.
Dopodiché, proprio la Libertadores (una chicca : Gallardo è l’unico ad aver vinto la coppa sia da giocatore che da allenatore). E per rendere il tutto più leggendario, il destino che fa? Mette di fronte il Boca Juniors in un Superclàsico da brividi già agli ottavi (finito poi come sappiamo, con l’aggressione pepata ai giocatori biancorossi a La Bombonera valsa la vittoria a tavolino per il River). Poi la cavalcata che li ha portati a giocarsi la doppia finale contro i messicani del Tigres, decisi a rompere il tabù che vede le squadre messicane mai vincenti in Libertadores.
All’andata a Monterrey, in un Volcàn infuocato e completamente colorato di giallo, i messicani guidati da Arevalo Rios e Gignac ci provano in tutti i modi ma la porta difesa da Barovero si rivela inviolabile, mentre il River si limita a fare il compitino contenendo l’ardore dei felinos e rimandando il discorso al Monumental, che nelle due precedenti finali di Libertadores si è sempre rivelato inespugnabile.
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La partita. Il Monumental, tenendo fede al suo imponente nome da far tremar le gambe, accoglie la Banda del Muñeco completamente vestito di biancorosso, in un clima infuocato tra fuochi d’artificio, fumogeni e 60000 persone a cantare “River mi buen amigo” all’ingresso in campo. Ma paradossalmente chi risente del fattore campo sono proprio i padroni di casa, che partono malissimo forse a causa della tensione per la posta in palio, lasciando spazi al Tigres. I messicani attaccano e fanno la partita, ma sono troppo imprecisi e confusionari e si divorano due nette occasioni da gol. Ad un minuto dalla fine del primo tempo però, Alario approfitta della difesa incerta dei messicani e devia di testa in rete un cross millimetrico di Vangioni, facendo esplodere lo stadio. Immaginate come poteva sentirsi lui, tifoso del Boca, a segno in finale di coppa per il River.
Il gol galvanizza i Millonarios che nella ripresa scendono in campo totalmente trasformati. Il Tigres invece non rinuncia a provarci nonostante l’imprecisione sotto porta. Al 74’ però, la svolta : rigore per il River Plate. Cavenaghi lascia l’onere a a Carlos Sanchez, che non sbaglia : 2-0 per il River. Il Tigres stavolta accusa il colpo e si accascia domato, nonostante manchi ancora un quarto d’ora alla fine. Al 79’ il gol del definitivo kappaò, con un incornata di Funes Mori che chiude definitivamente il discorso.
Al triplice fischio finale può finalmente esplodere la festa del popolo alvirojo, che, incurante della pioggia, si ritrova sotto l’obelisco di Buenos Aires a festeggiare l’inizio di un sogno dopo l’incubo di 5 anni fa, cantando “vamo’ a Japon”, dove si prospetta la finale di Intercontinentale (scusate, Mondiale per club) contro il Barcellona in una partita che al solo nominarla fa venire i lucciconi agli occhi. Viene da chiedersi, però, se quello sparuto gruppetto nella curva del Boca non avesse lanciato quell’ordigno al gas, nel ritorno degli ottavi, chissà come sarebbe finita..