Esperto di strategie militari, economia e politica estera, scrittore e saggista, Edward Luttwak è noto in Italia per la partecipazione a numerose trasmissioni televisive e per la pubblicazione di importanti volumi in campo storico e diplomatico. Il suo stile pragmatico e fondato su un approccio di realpolitik, è alla base anche dell’intervista che qui pubblichiamo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “Il Risveglio del Drago. La minaccia di una Cina senza strategia” (Rizzoli 2012, pp. 288, Euro 18,00).
La Cina sta divenendo sempre più una potenza militare, e quindi politica, oltre che economica. In particolare sembra che Pechino stia cercando di rafforzare le sue forze marittime. Cosa potrebbe implicare questo per i futuri assetti della cruciale “area del Pacifico”?
Quella cinese, più che politica è sempre più una potenza militare ma non dobbiamo esagerare. Perché, in fin dei conti, hanno solo una piccola portaerei semifunzionale. Da qui ad avere una flotta competitiva che funzioni ci vorrebbero un minimo di tre portaerei, quindi, passeranno quasi 30 anni. La Cina ha 2 tipi di caccia avanzati in prototipo ma ancora con motori russi. Per avere motori efficaci e cinesi trascorreranno ancora dai 15 ai 20 anni. Una forza equivalente a quella americana nel Pacifico necessiterebbe quattro o cinque decenni, mentre anche per essere solo militarmente competitiva in senso ristretto ci vorrebbero 15-20 anni se gli Americani rimangono a crescita zero. A questo aggiungiamo che anche l’economia sta rallentando. La crescita del PIL, infatti, è già scesa dal +10 al +7 per cento e continuerà a diminuire. È vero che per accelerare i tempi i Cinesi potrebbero emulare l’Unione Sovietica degli ultimi decenni che aumentava lo sforzo militare a un ritmo che eccedeva la sua scarsa crescita economica, ma il risultato fu di creare una specie di Burkina Faso con missili balistici, perché tutto il non-militare rimase arretrato.
Potenza economica, potenza militare. Eppure il Drago cinese sembra ancora molto in ritardo sul piano del Soft Power, senza l’uso del quale ben difficilmente una Potenza può davvero aspirare ad un ruolo egemonico e/o di primo piano sullo scacchiere mondiale. È d’accordo su questo, o Le sembra che Pechino stia lavorando anche in questa direzione?
Pechino non sa cosa voglia dire Soft Power. Ecco perché i cinesi si stanno autosabotando. Sono aperti al mercato, acquistano prodotti dall’estero, investono, esportano ed importano beni e servizi, promuovono la lingua e la cultura cinese attraverso gli istituti confuciani Hanban e quindi, avrebbero tutti gli elementi per esercitare il Soft Power. Ma rovinano tutto perché litigano su piccole questioni con molti dei loro vicini, dalla Corea all’India. Nell’area del Pacifico stanno sabotando tutte le possibilità, realizzando un “negative Soft Power”. Hanno provocato prima i vietnamiti, poi i giapponesi, ora anche i filippini, l’Indonesia e l’India con le loro pretese territoriali. Sul fronte orientale stanno litigando con ogni potenza limitrofa. Sono riusciti perfino a mettere i birmani nelle mani americane. Ma anche i tailandesi sono parecchio arrabbiati con i cinesi. Stanno facendo come i turchi che, con quel clown da circo che è il Ministro degli Esteri Davutoğlu, hanno aperto conflitti con tutti i loro vicini, dalla Bulgaria alla Siria, dall’Iraq all’Iran, dall’Armenia alla Grecia, per non parlare di Cipro o Israele.
Abbiamo avuto l’impressione che, sotto l’Amministrazione Bush, il Segretario di Stato Rice stesse cercando di tessere tra Oceano Pacifico e Oceano Indiano una rete di alleanze che servisse, in prospettiva, a contenere l’espansione dell’influenza cinese. È una strategia ancora attuale anche con Obama?
Assolutamente sì. La strategia americana è quella di non provocare i cinesi ma di tessere rapporti con i tutti quei Paesi minacciati dai cinesi, come i vietnamiti, i filippini o i giapponesi. Una coalizione emergente tessuta, peraltro, anche dagli australiani e dagli indiani, attraverso relazioni bilaterali. Per evitare tutte queste frizioni e risolvere il problema, Pechino non si rende conto che farebbe meglio a dimezzare la propria flotta.
*La versione integrale della diffusa intervista a Edward Luttwak sui rapporti tra Cina e Occidente si trova pubblicata sul nuovo numero della rivista “Il Nodo di Gordio”
Per info: www.NododiGordio.org – abbonamenti@nododigordio.org)