A Cannes, nonostante tutto, il cinema italiano ha fatto furore. Efficace manco fosse la Zemanlandia dei tempi belli, il tridente tricolore Sorrentino-Garrone-Moretti va in gol trascinato da minutaggi d’applausi che nemmeno le sortite fantozziane in tema di Corazzata Potemkin. Eppure al cinema italiano, nel suo complesso, manca ancora qualcosa. Sistemate le coscienze dei giusti e dei sapienti non c’è risposta alle istanze di chi vorrebbe che i registi tornassero a prendere il bus, come chiedeva il grande Monicelli.
Il nostro cinema s’è imborghesito nelle commediole a sfondo psicanalitico e moraleggianti interpretate sempre dagli stessi attori. Il cine-panettone, che pure fu ultimo baluardo di originalità italiana, è ormai filone esausto per autoconsunzione. E l’eterna crisi è figlia della cronica mancanza di risorse economiche, del continuo e continuato sovvenzionamento da parte di Stato e sue filiazioni, della mancanza di storie originali eppure per strada se ne sentono tante e tante. Non è un caso se il posto di certo cinema l’ha preso, per un certo pubblico, il florilegio dei talk show e dei collegamenti in esterna differita con l’ennesima piazza inferocita, latrice delle sue solite poche idee, estremamente confuse.
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Il modello Zalone
Un produttore mediamente scaltro copierebbe, nel metodo, i mammasantissima del cinema che oggi incanta Cannes. Se loro hanno riesumato Fellini e la vena éngagée, lui fonderebbe un fronte di liberazione nazionale dei comici dal confino forzato tra cabaret televisivi e feste di piazza. In fondo, Checco Zalone (e pure Siani) ce l’ha insegnato: far ridere al cinema non è reato. E anzi frutta un sacco di quattrini.
C’è però un altro lato del mondo oscuro del cinema d’antan che nessuno ha avuto il coraggio di riprendere. Il poliziottesco è genere indigesto al bel mondo di coloro che sanno e che pretendono d’insegnare. Sdoganato da Quentin Tarantino, insieme a tutto il vasto mondo B-movie nostrano, ha lasciato le strade della Roma violenta, della Milano che odia e della Napoli che spara per assettarsi comodamente mummificato nelle videoteche polverose delle accademie. E’ ora che buoni e cattivi tornino a inseguirsi sulle strade del cinema.
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Il commissario di ferro, muto per definizione, vocazione e indole, non parla ma agisce. Si confronta con gli istinti del popolo minuto, frequenta i circoli dove incontra soffia e capetti, sbuffa alle richieste dei suoi superiori eternamente pavidi, vorrebbe far un solo falò delle leggine che consentono alla giustizia di farsi beffare in continuazione da legulei senza scrupoli. Senza macchia e senza paura. Il suo ruolo non gli consente di avere una famiglia tranquilla o una carriera soddisfacente. È lui il paladino degli onesti ed ha il volto baffuto di Maurizio Merli e l’Alfa Romeo d’ordinanza.
Il delinquente de borgata è logorroico per contrappasso. Senza pietà in un mondo di squali, spara, uccide, ridacchia, beffa la morte e ghigna. Ammazza senza ragione, non conosce sentimenti e oltraggia le vittime. É, spesso, tipo ironico. Accompagna con battute e motti arguti i suoi misfatti. Frequenta puttane e professionisti. Sboccato e violento, vuole arrivare lassù in cima dove c’è la gente perbene che frequenta i night alla moda e prende per il culo brutti, poveri e storpi. Spesso ha mandanti altolocati. A volte ha la gobba. Sempre, però, indossa la ghigna furfantesca di Tomas Milian e guida la Citroen Ds.
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Sullo sfondo, massaie rurali, poliziotti senza soldi che si chiedono chi glielo fa fare, bevitori incalliti, giocatori di zecchinetta, baristi, commesse, giovani di belle speranze e brutte frequentazioni, classi dirigenti inette e colluse, eroi borghesi e infami di tutte le razze e religioni. Spacciatori e canzoni popolari, vecchiette indifese e maliarde ricattatrici.
Son passati quarant’anni ma l’Italia non è molto diversa da quella lì. Basterebbe solo tornare a prendere l’autobus, avere il coraggio di sfidare il tabù del volemose bene e raccontare l’affascinante mondo ultrapop del coatto.