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Home Ritratti non conformi

Anniversari. Steve McQueen e la vita spericolata come unica regola esistenziale

by Giorgio Ballario
24 Marzo 2013
in Ritratti non conformi
0

Steve McQueen«Voglio una vita spericolata, voglio una vita come Steve McQueen», cantava trent’anni fa Vasco Rossi, nella famosa edizione di Sanremo del 1983. Era ancora fresca, nella memoria collettiva, non solo italiana, l’immagine ricca di fascino e di contraddizioni di uno dei più grandi divi hollywoodiani degli Anni 60 e 70, morto da poco più di due anni. Terence Steven McQueen, nato il 24 marzo del 1930 (oggi avrebbe compiuto 83 anni), si spense in una clinica di Ciudad Juarez, in Messico, nel novembre del 1980, a soli cinquant’anni di età. Se lo portò via nel giro di un anno una malattia terribile, di certo poco frequente tra gli attori cinematografici. Nulla a che vedere con l’alcol, la droga e gli eccessi di vario genere che peraltro McQueen non rifiutava: il mesotelioma pleurico, un tumore polmonare praticamente incurabile, è la tipica malattia professionale di chi ha lavorato a stretto contatto con l’amianto. E Steve, che da ragazzo si era arruolato nei marines, aveva smantellato i soffitti delle navi rivestiti d’asbesto e nelle corse automobilistiche – sua grande passione – indossava tute protettive a base d’amianto.Se ne andava così, nel pieno della maturità artistica e umana, uno dei protagonisti più controversi dello star-system americano, destinato a diventare un mito non solo per le figure cinematografiche che aveva interpretato, ma per la sua stessa vita, davvero spericolata e fuori dai canoni della società perbenista in cui era nato e cresciuto. Un uomo che assomigliava molto ai personaggi che di cui aveva vestito i panni: duro, solitario, disincantato. In L’ultimo buscadero, film del 1972 diretto da Sam Peckinpah, il profeta della violenza, fa la parte di un cowboy moderno, che si guadagna il pane gareggiando nei rodei del West. «Se il mondo è dei vincitori, che ci stanno a fare i vinti?», gli domanda un altro personaggio della pellicola. E lui, asciutto, risponde senza troppi giri di parole: «Qualcuno deve pur tenere i cavalli».

Non aveva avuto una vita facile e forse è per questo motivo che era descritto come un tipo rissoso, ribelle, attaccato ai soldi. Nato nei pressi di Indianapolis, era cresciuto in un ranch del Missouri di proprietà dello zio, perché la madre, una donna fragile che passava di letto in letto, non poteva badare a lui. Il padre non l’ha mai conosciuto, se ne andò di casa quando Steve aveva appena sei mesi. Da adulto, ormai ricco e famoso, provò a rintracciarlo, ma arrivò tardi: era morto pochi mesi prima.L’infanzia di Steve McQueen fu visibilmente segnata dall’assenza dei genitori. A 14 anni era un teppista di strada e la madre, che nel frattempo si era risposata, lo spedì al Boys Republic di Chino, un riformatorio per ragazzi. Un’esperienza traumatica, ma anche formativa. Anni dopo l’attore tornò più volte in quel rigidissimo collegio, per raccontare la sua storia e dare qualche consiglio ai giovani che vi erano reclusi. Alla sua morte lasciò una cospicua donazione e fece istituire una borsa di studio per il miglior studente del Boys Republic.A diciassette anni, uscito dal riformatorio, McQueen si arruola nei marines e presta servizio a Santo Domingo e al Polo Nord. Veste l’uniforme per tre anni e malgrado il caratteraccio e la tendenza all’insubordinazione, viene congedato con onore per essersi tuffato nelle acque gelate e aver salvato alcuni commilitoni durante un’esercitazione. Nel 1950 si trasferisce a New York, dove nel frattempo era andata a viver la madre, e si mantiene con vari lavoretti: taxista, ciabattino, fattorino e posatore di mattonelle. Ma sono anche anni torbidi, in cui pare si venda sul marciapiede ai facoltosi omosessuali della Grande Mela.E’ lì che entra nel mondo dello spettacolo. Si iscrive a una scuola di recitazione e nel ’55 riesce a entrare all’Actor’s Studio e nello stesso anno si sposa con Neile Adams, un’attrice di Broadway. Prende parte ad alcune commedie teatrali, fa delle comparse in pellicole a basso costo e finalmente, nel 1958, ottiene una parte da protagonista nel film di horror-fantascienza The Blob, che avrà un grande successo di pubblico. Poi lavora per la CBS nella serie televisiva western Wanted dead or alive, impersonando un cacciatore di taglie; e viene scritturato da John Sturges per I magnifici sette, remake western dei Sette samurai di Kurosawa.E’ nata una stella. Steve McQueen piace per la recitazione scabra e intensa, per il suo stile “cool” che lo fa schizzare di diritto nell’empireo dei divi hollywoodiani. In realtà lui continua a essere inquieto e attaccabrighe, anche dopo esser diventato padre di Terry e Chad. Gli anni 60 lo consacrano come uno degli attori più popolari e meglio pagati del cinema americano: lavora con grandi registi e realizza film diventati leggendari come L’inferno è per gli eroi, La grande fuga, Soldato sotto la pioggia, Quelli della San Pablo.Intorno ai 40 anni McQueen entra in crisi. Ansie, paranoie e ossessioni antiche lo lo spingono verso l’abuso di droghe e le scappatelle sono all’ordine del giorno, mettendo in crisi il suo matrimonio. Nel 1971-72 prende parte a due film diretti dall’amico Sam Peckinpah: L’ultimo buscadero e Getaway, dove interpreta un rapinatore di banche. Sul set conosce l’attrice Ali McGraw, che sposerò poco dopo.Risale al 1973 una delle migliori performance della sua carriera, in Papillon, storia della fuga dal penitenziario francese della Guyana. A metà anni 70 continua la sua crisi personale: ingrassa, si fa crescere la barba e i capelli lunghi, rifiuta i copioni che gli vengono proposti e passa le sue giornate dentro la sua casa sulla spiaggia di Malibù.I suoi sbalzi d’umore, associati al consumo di droga e alcool, distruggono anche il suo secondo matrimonio: divorzia dalla McGraw e si mette con la giovane modella Barbara Minty. McQueen, ormai vicino alla cinquantina, vuole cambiare vita, va in una clinica per disintossicarsi e cerca di trasformare la vecchia passione per le corse (nel film Le 24 ore di Le Mans non volle neppure la controfigura, perché era abituato a guidare bolidi ai 300 all’ora) convertendosi al pilotaggio di aerei d’epoca. Per lui sembra aprirsi una nuova fase di serenità, ma il destino lo aspetta dietro l’angolo. Gli viene diagnosticato il mesotelioma e il male è in fase così avanzata che i medici si rifiutano di operarlo.Steve non si arrende, va ad operarsi in una clinica in Messico ma il suo cuore si ferma 24 ore dopo l’intervento chirurgico. Lo assistono nelle ultime ore la moglie Barbara e l’amico e istruttore di volo Sammy Mason; e si dice che il grande attore se ne sia andato mormorando i numeri di matricola che lo avevano identificato negli anni bui del riformatorio. Il suo corpo viene portato in California per essere cremato e toccherà agli amici di volo spargere le sue ceneri nell’oceano Pacifico.«Voglio una vita spericolata, voglio una vita come Steve McQueen», cantava trent’anni fa Vasco Rossi, nella famosa edizione di Sanremo del 1983. Era ancora fresca, nella memoria collettiva, non solo italiana, l’immagine ricca di fascino e di contraddizioni di uno dei più grandi divi hollywoodiani degli Anni 60 e 70, morto da poco più di due anni. Terence Steven McQueen, nato il 24 marzo del 1930 (oggi avrebbe compiuto 83 anni), si spense in una clinica di Ciudad Juarez, in Messico, nel novembre del 1980, a soli cinquant’anni di età. Se lo portò via nel giro di un anno una malattia terribile, di certo poco frequente tra gli attori cinematografici. Nulla a che vedere con l’alcol, la droga e gli eccessi di vario genere che peraltro McQueen non rifiutava: il mesotelioma pleurico, un tumore polmonare praticamente incurabile, è la tipica malattia professionale di chi ha lavorato a stretto contatto con l’amianto. E Steve, che da ragazzo si era arruolato nei marines, aveva smantellato i soffitti delle navi rivestiti d’asbesto e nelle corse automobilistiche – sua grande passione – indossava tute protettive a base d’amianto.Se ne andava così, nel pieno della maturità artistica e umana, uno dei protagonisti più controversi dello star-system americano, destinato a diventare un mito non solo per le figure cinematografiche che aveva interpretato, ma per la sua stessa vita, davvero spericolata e fuori dai canoni della società perbenista in cui era nato e cresciuto. Un uomo che assomigliava molto ai personaggi che di cui aveva vestito i panni: duro, solitario, disincantato. In L’ultimo buscadero, film del 1972 diretto da Sam Peckinpah, il profeta della violenza, fa la parte di un cowboy moderno, che si guadagna il pane gareggiando nei rodei del West. «Se il mondo è dei vincitori, che ci stanno a fare i vinti?», gli domanda un altro personaggio della pellicola. E lui, asciutto, risponde senza troppi giri di parole: «Qualcuno deve pur tenere i cavalli».Non aveva avuto una vita facile e forse è per questo motivo che era descritto come un tipo rissoso, ribelle, attaccato ai soldi. Nato nei pressi di Indianapolis, era cresciuto in un ranch del Missouri di proprietà dello zio, perché la madre, una donna fragile che passava di letto in letto, non poteva badare a lui. Il padre non l’ha mai conosciuto, se ne andò di casa quando Steve aveva appena sei mesi. Da adulto, ormai ricco e famoso, provò a rintracciarlo, ma arrivò tardi: era morto pochi mesi prima.L’infanzia di Steve McQueen fu visibilmente segnata dall’assenza dei genitori. A 14 anni era un teppista di strada e la madre, che nel frattempo si era risposata, lo spedì al Boys Republic di Chino, un riformatorio per ragazzi. Un’esperienza traumatica, ma anche formativa. Anni dopo l’attore tornò più volte in quel rigidissimo collegio, per raccontare la sua storia e dare qualche consiglio ai giovani che vi erano reclusi. Alla sua morte lasciò una cospicua donazione e fece istituire una borsa di studio per il miglior studente del Boys Republic.A diciassette anni, uscito dal riformatorio, McQueen si arruola nei marines e presta servizio a Santo Domingo e al Polo Nord. Veste l’uniforme per tre anni e malgrado il caratteraccio e la tendenza all’insubordinazione, viene congedato con onore per essersi tuffato nelle acque gelate e aver salvato alcuni commilitoni durante un’esercitazione. Nel 1950 si trasferisce a New York, dove nel frattempo era andata a viver la madre, e si mantiene con vari lavoretti: taxista, ciabattino, fattorino e posatore di mattonelle. Ma sono anche anni torbidi, in cui pare si venda sul marciapiede ai facoltosi omosessuali della Grande Mela.E’ lì che entra nel mondo dello spettacolo. 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Gli anni 60 lo consacrano come uno degli attori più popolari e meglio pagati del cinema americano: lavora con grandi registi e realizza film diventati leggendari come L’inferno è per gli eroi, La grande fuga, Soldato sotto la pioggia, Quelli della San Pablo.Intorno ai 40 anni McQueen entra in crisi. Ansie, paranoie e ossessioni antiche lo spingono verso l’abuso di droghe e le scappatelle sono all’ordine del giorno, mettendo in crisi il suo matrimonio. Nel 1971-72 prende parte a due film diretti  dall’amico Sam Peckinpah: L’ultimo buscadero e Getaway, dove interpreta un rapinatore di banche. Sul set conosce l’attrice Ali McGraw, che sposerò poco dopo.Risale al 1973 una delle migliori performance della sua carriera, in Papillon, storia della fuga dal penitenziario francese della Guyana. 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Gli viene diagnosticato il mesotelioma e il male è in fase così avanzata che i medici si rifiutano di operarlo.Steve non si arrende, va ad operarsi in una clinica in Messico ma il suo cuore si ferma 24 ore dopo l’intervento chirurgico. Lo assistono nelle ultime ore la moglie Barbara e l’amico e istruttore di volo Sammy Mason; e si dice che il grande attore se ne sia andato mormorando i numeri di matricola che lo avevano identificato negli anni bui del riformatorio. Il suo corpo viene portato in California per essere cremato e toccherà agli amici di volo spargere le sue ceneri nell’oceano Pacifico.

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