Nel recente concistoro, che si è tenuto nel mezzo delle polemiche per le fughe di documenti dalla Segreteria di Stato vaticana, Benedetto XVI ha voluto che i cardinali parlassero della nuova evangelizzazione. E il Papa ha richiamato i porporati allo spirito di servizio, richiamando tutti all’umiltà. L’arcivescovo di Buenos Aires, il gesuita Jorge Mario Bergoglio, che ha origini familiari torinesi, è una delle figure di spicco dell’episcopato latinoamericano. Nella sua diocesi, Buenos Aires, già da tempo la Chiesa va nelle strade, nelle piazze, nelle stazioni per evangelizzare e amministrare i sacramenti. Vatican Insider lo ha intervistato chiedendogli di commentare i lavori del concistoro e le parole del Pontefice.
Come vede la decisione del Papa di indire un anno della fede e di insistere sulla nuova evangelizzazione?
«Benedetto XVI insiste nell’indicare come prioritario il rinnovamento della fede, e presenta la fede come un regalo da trasmettere, un dono da offrire, da condividere un atto di gratuità. Non un possesso, ma una missione. Questa priorità indicata dal Papa ha una dimensione di memoria: con l’Anno della fede facciamo memoria del dono ricevuto. E questo poggia su tre pilastri: la memoria dell’essere stati scelti, la memoria della promessa che ci è stata fatta e dell’alleanza che Dio ha stretto con noi. Siamo chiamati a rinnovare l’alleanza, la nostra appartenenza al popolo fedele a Dio»
Che cosa vuol dire evangelizzare, in un contesto come quello dell’America Latina?
«Il contesto è quello emerso dalla quinta conferenza dei vescovi dell’America Latina, che si è tenuta ad Aparecida nel 2007. Ci ha convocato a una missione continentale, tutto il continente è in stato di missione. Si sono fatti e si fanno dei programmi, ma c’è soprattutto l’aspetto paradigmatico: tutta l’attività ordinaria della Chiesa si è impostata in vista della missione. Questo implica una tensione molto forte tra centro e periferia, tra la parrocchia e il quartiere. Si deve uscire da se stessi, andare verso la periferia. Si deve evitare la malattia spirituale della Chiesa autoreferenziale: quando lo diventa, la Chiesa si ammala. È vero che uscendo per strada, come accade a ogni uomo e a ogni donna, possono capitare degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in se stessa, autoreferenziale, invecchia. E tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima».
Qual è la sua esperienza a questo proposito in Argentina e in particolare a Buenos Aires?
«Cerchiamo il contatto con le famiglie che non frequentano la parrocchia. Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve, cerchiamo di essere una Chiesa che esce da se stessa e va verso gli uomini e le donne che non la frequentano, che non la conoscono, che se ne sono andate, che sono indifferenti. Organizziamo delle missioni nelle pubbliche piazze, quelle in cui si raduna molta gente: preghiamo, celebriamo la messa, proponiamo il battesimo che amministriamo dopo una breve preparazione. È lo stile delle parrocchie e della stessa diocesi. Oltre a questo cerchiamo anche di raggiungere le persone lontane attraverso i mezzi digitali, la rete web e dei brevi messaggi».
Nel discorso al concistoro e poi nell’omelia della messa di domenica 19 febbraio, il Papa ha insistito sul fatto che il cardinalato è un servizio come pure sul fatto che la Chiesa non si fa da sola. Come commenta le parole di Benedetto XVI?
«Mi ha colpito l’immagine evocata dal Papa, che ha parlato di Giacomo e Giovanni e delle tensioni interne ai primi seguaci di Gesù su chi dovesse essere il primo. Questo ci indica che certi atteggiamenti, certe discussioni, sono sempre avvenute nella Chiesa, fin dagli inizi. E questo non ci dovrebbe far scandalizzare. Il cardinalato è un servizio, non è un’onorificenza di cui vantarsi. La vanità, il vantarsi di se stessi, è un atteggiamento della mondanità spirituale, che è il peccato peggiore nella Chiesa. È un’affermazione questa che si trova nelle pagine finali del libro “Méditation sur l’Église” di Henri De Lubac. La mondanità spirituale è un antropocentrismo religioso che ha degli aspetti gnostici. Il carrierismo, la ricerca di avanzamenti, rientra pienamente in questa mondanità spirituale. Lo dico spesso, per esemplificare la realtà della vanità: guardate il pavone, com’è bello se lo vedi da davanti. Ma se fai qualche passo, e lo vedi da dietro, cogli la realtà… Chi cede a questa vanità autoreferenziale in fondo nasconde una miseria molto grande».
In che cosa consiste, allora, l’autentico servizio del cardinale?
«I cardinali non sono gli agenti di una ONG, ma sono servitori del Signore, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, che è Colui che fa la vera differenza tra i carismi, e che allo stesso tempo nella Chiesa li conduce all’unità. Il cardinale deve entrare nella dinamica della differenza dei carismi e allo stesso tempo guardare all’unità. Avendo coscienza che l’autore, sia della differenza come dell’unità, è lo stesso Spirito Santo. Un cardinale che non entri in questa dinamica, non mi sembra sia cardinale secondo ciò che chiede Benedetto XVI».
* da Vatican Insider de La Stampa