Sono già passati diciannove anni dalla morte di Charles Bukowski (9 marzo 1994), ma provate a trovare, nella moltitudine di intellettuali globalizzati che adesso vanno per la maggiore, uno più disinteressato, controcorrente e fuori dal coro di lui. Uno che alla vigilia della Seconda guerra mondiale, mentre negli Usa infuria la propaganda anti-tedesca, all’università frequenta un gruppuscolo filonazista e si pavoneggia con le sue origini crucche. «Distinguevo a fatica Hitler da Ercole e non poteva importarmene di meno. Era soltanto che stare seduti a lezione e sentire tutte le prediche patriottiche su come dovremmo andar lì e fare del nostro meglio, mi vennero a noia. Decisi di diventare l’opposizione».
Charles Henry Bukowski era nato in Germania nel 1920, il padre era un militare americano e la mamma una cittadina tedesca e quando lui aveva due anni si trasferirono negli States, prima a Baltimora e nel Maryland, poi a Los Angeles dove trascorrerà tutto il resto della sua esistenza. L.A. resterà uno dei quattro punti cardinali nella vita di Bukowski: gli altri furono le donne, l’alcol e le corse di cavalli, non necessariamente in quest’ordine.
Quando lo troviamo filonazista all’università, con le donne ha ancora scarsa dimestichezza, anche per colpa di un’acne molto estesa che gli rovinò del tutto l’adolescenza. In compenso con alcol e ippodromi ha già una certa familiarità. Aveva cominciato a bere all’età di 14 anni, per sfuggire alla violenza domestica, alla timidezza, alle prese in giro dei compagni di scuola per le sue origini tedesche. Nello studio non brilla, ma in compenso manifesta fin da ragazzo un’attrazione fatale per la lettura. Legge di tutto: da Hamsun a Dostojevski, da Kafka a Hemingway, fino ai filosofi tedeschi Nietzsche e Schopenhauer. Scopre Céline ed è una folgorazione: «Leggendolo si consolidò il mio incondizionato rifiuto per ogni forma di lavoro regolamentato».
Naturalmente scrive, soprattutto poesie, ma l’accoglienza del mondo editoriale è tiepida. Come racconterà poi nei romanzi del suo alter-ego Henry Chinaski, fa mille lavori senza mai riuscire a mantenerne uno. Ma forse è lui stesso a non volersi fermare in un ufficio o in una fabbrica. In fin dei conti gli bastano poche centinaia di dollari per affittare una stamberga, comprare vino a buon mercato e rimorchiare una prostituta al bar.
Nel 1957, dopo aver curato un’ulcera in ospedale, sposa la poetessa Barbara Frye, che aveva pubblicato alcune poesie di Bukowski sulla rivista Harlequin, da lei diretta. Il matrimonio dura due anni, poi dopo la separazione lui riprende a bere e a frequentare i bar malfamati. Nel ’60 ottiene un lavoro all’ufficio postale e per l’intero decennio, in pratica, conduce una vita quasi monotona: lavora, beve, va alle corse dei cavalli e scrive racconti e poesie, che vengono pubblicati senza successo da piccoli editori. Nel frattempo la burrascosa convivenza con Frances Smith sfocia nella nascita di una figlia, Marina Louise. In questi anni scrive “Taccuino di un vecchio sporcaccione”, che esce a puntate su un giornale underground, e tenta senza successo di lanciare una sua rivista letteraria.
Ha 49 anni e poche illusioni sul suo destino di scrittore, quando all’improvviso si verifica un fatto che gli cambia la vita. E’ il 1969 e la piccola casa editrice Black Sparrow gli offre 100 dollari al mese per lasciare l’impiego alle poste e dedicarsi a tempo pieno alla stesura di un romanzo. «Avevo solo due alternative – scriverà poi – restare all’ufficio postale e impazzire… o andarmene, giocare a fare lo scrittore e morire di fame. Decisi di morire di fame». Con quell’incontro inizia la sua carriera di scrittore e anche la fortuna dell’editore dato che Bukowski, anche diventato famoso, continuerà a pubblicare per Black Sparrow. Pochi mesi dopo esce in libreria “Post office”, romanzo autobiografico ispirato al lavoro svolto da “Hank” fino a poco prima.
Il libro va bene. Bukowski comincia ad assaporare un po’ di fama e di meritato successo economico, gira per il Paese tenendo conferenze e s’imbarca in una lunga serie di relazioni sentimentali con donne di vario genere (la scultrice, la manager, la mamma, la poetessa…) che gli forniranno spunto per altri romanzi e racconti, come “Donne” e “Hollywood! Hollywood! “. Oltre alla fama letteraria cresce anche la sua immagine di “scrittore maledetto”: ubriaco, maleducato, anarchico e individualista. E’ lui stesso a farsi beffe di chi lo apparenta alle “Beat Generation”. Nel 1976 incontra Linda Lee Beighle, proprietaria di un ristorante di cibo salutare, ed è un’altra svolta. Linda lo rimette un po’ in sesto, lo costringe a nutrirsi meglio, a bere meno (solo vino e di buona qualità), a dormire di più. «Mi ha regalato dieci anni di vita», commenterà lui tempo dopo.
“Hank” si rimette in carreggiata, ma non cambia il suo spirito caustico e corrosivo che gli consente di farsi liberamente beffe dell’American Way of Life e della retorica patriottarda e ipocrita del sogno americano: «Un’intera fottuta nazione di teste di cazzo che guidavano automobili, mangiavano, facevano figli, tutto nel peggior modo possibile, vere stronzate, come votare per il candidato alle presidenziali con un’immagine il più possibile simile alla loro». Bukowski non si interessa di politica, ma forse proprio per questo non si beve la favoletta della grande democrazia a stelle e strisce, dove «i ricchi trovano sempre un modo per mungere il sistema». E ancora: «La differenza tra democrazia e dittatura è che in democrazia prima si vota e poi si prendono ordini, in dittatura non dobbiamo sprecare tempo andando a votare».
Gli anni Ottanta sono quelli della consacrazione. Charles Bukowski è ormai un autore di culto, le sue opere sono pubblicate in tutto il mondo e diventano sceneggiature di film (Storie di ordinaria follia, Barfly, Crazy Love). All’inizio degli anni Novanta si ammala di leucemia: muore il 9 marzo del 1994, poco dopo aver dato alle stampe il suo ultimo romanzo, “Pulp”, una sgangherata storia in cui un detective di serie B viene incaricato dalla Signora Morte di rintracciare lo scrittore francese Louis-Ferdinand Céline, scomparso a Los Angeles. Quasi un testamento spirituale e un omaggio allo scrittore preferito. Alla “sua” Signora Morte aveva già dedicato una frase memorabile: «Ti ho dato tante di quelle occasioni che avresti dovuto portarmi via parecchio tempo fa. Vorrei essere sepolto vicino all’ippodromo… per sentire la volata sulla dirittura d’arrivo».