“E’ meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”. Ha deciso di salutare così, con una lettera e un fucile, in garage. Bruciandosi nella fretta di uno sparo, a 27 anni, da icona – forse l’ultima – di un rock maledetto e disperato.
Vent’anni fa moriva Kurt Cobain. Anzi, si dava la morte, nella sua casa di Seattle, il 5 aprile 1994. Il suo corpo fu ritrovato solo tre giorni dopo. Solo, come la vita di questo ribelle votato alla causa dell’autodistruzione. Serve a qualcosa ricordare che fu il leader dei Nirvana, la band che aprì la strada ad un nuovo genere, il grunge, ennesima filiazione di un rock che ebbe nei Pearl Jam e nei Soundgarden i più riusciti epigoni? Forse no. Alzi la mano chi non ha avuto voglia di spaccare il mondo ascoltando “Smells like ten spirit”, o non si è cullato in strane notti con le note di “Something in the way”.
Cobain forma i Nirvana nel 1987 con Krist Novoselic, dopo aver iniziato a suonare a quattro anni, gli altri bambini si dedicano a scarabocchiare alberi e soli. Fu enfant prodige, nonostante gli esordi poco fortunati. Poi la svolta. In due anni, e con l’arrivo di Dave Grohl, i Nirvana si prendono la scena di Seattle. Sfornano un capolavoro dopo l’altro, in un triangolo che cambia la storia della musica moderna: Bleach (1989), Nevermind (1991) e In Utero (1993).
Scelsero quel nome – Nirvana – come un esorcismo, forse per non dover dimenticare che quella pace a cui tanti aspirano è un lusso che non tutti possono permettersi di inseguire. Come un angelo maledetto caduto dal Paradiso del rock, Cobain ha vissuto l’inferno di una vita fatta di eccessi: dal divorzio dei genitori quando aveva sette anni, che l’ho segnò profondamente (“Da allora ho iniziato a odiare tutti”, scriverà più tardi), al difficile rapporto con un mondo che sentiva estraneo. Al punto da rifugiarsi nella dipendenza da eroina, nell’eccesso elevato a sistema, nello sregolarsi quotidiano come stile di vita. Nulla lo sottrasse a una morte con cui si era sposato da sempre: nemmeno il complicato amore con Courtney Love, la nascita della figlia . Intorno, il vuoto: il successo come peso, la notorietà come condanna.
Campione di nichilismo, divenne suo malgrado un’icona (anche) commerciale. Una faccia da mettere su una t-shirt, un brand pop buono per tutte le stagioni. Un po’ come Che Guevara. Libero, bello e ribelle, non riuscì a reggere le aspettative del mondo, quel dannato rendere conto agli altri in cui si consuma la vita di chi ha scelto di mostrarsi. Occhi pazzi, di un celeste profondo, a nascondere la profondità dell’abisso che si portava dietro nelle pose di un campione di anticonformismo.
Cresciuto, da adolescente, in un’America che iniziava a rendersi conto delle fandonie reganiane, fu spolpato dalla depressione. Il mondo non gli piaceva, non gli era mai piaciuto. Eppure amava la vita di un amore disperato, senza gioia. “Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere (…). A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco”, scriverà nella lettera che lasciò poco prima di darsi quella morte su cui tanto si è favoleggiato e su cui – vedi le foto, inedite, uscite solo pochi giorni fa – si continua a discutere.
Si diede la morte, forse perché non riusciva a darsi una forma. Informe nelle sensazioni, tragico nei gesti, fu soprattutto vero. Mostrando il lato umano, troppo umano, di una sensibilità lacerante e lacerata dalla modernità. Basta guardarlo, esile e triste, in quel capolavoro ch’è “Unplugged in New York”, per scoprire come dietro la furia che sfasciava mondi e chitarre ci fosse la tenerezza indifesa di una persona sola.
Nella lettera di suicidio, diretta all’amico immaginario della sua infanzia, “Boddah”, Cobain citò una canzone di Neil Young, “My My, Hey Hey”, che sa di epitaffio a una passione che arde anche negli ultimi istanti di vita: “It’s better to burn out than to fade away”. E lui continua a bruciare in fretta. Ma senza spegnersi mai.
@mariodefazio