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Nirvana/1. Vent’anni senza Cobain: oltre la favola nera le note e la vita di un ribelle

by Antonio Rapisarda
5 Aprile 2014
in Musica, Personaggi
0

nirvana1Vent’anni senza Kurt Cobain per i trentenni di oggi non segnano lo scorrere inevitabile del tempo ma fissano nella mente quant’è importante non smarrire «l’odore di spirito adolescenziale». Bring your friends, “porta i tuoi amici”, cantava coi Nirvana nell’inno generazionale Smells like teen spirit. Inno di una cordata che – caso unico nella storia – è rimasta intatta. Che cos’è se non la stessa “generazione X” di vent’anni fa quella di oggi? Una generazione che si dilata dai ventenni ai quarantenni di oggi negli States come in Europa: coinvolti in una spirale di “niente” che sembra confermare il divinatorio «No future» cantato dagli antesignani Sex Pistols.

Il 5 aprile del ‘94 Kurt – dietrologia a parte – la fa finita. Le foto dell’ultimo appartamento di Seattle sono rivelatrici dello stato di abbandono, di solitudine dell’ultima stagione di una vita breve ma intensa e creativa come poche. Un colpo di fucile, più volte – filologicamente – invocato nei testi delle sue canzoni. Più volte scritto sulle t-shirt e cantato in studio e dal vivo (oggetto di culto, alla fine degli anni ’90 prima dei masterizzatori, la musicassetta con l’esecuzione inedita di I hate my self and I want to die).

Da qui, ovviamente, la favola nera sulla rockstar morta come Hendrix e Morrison a ventisette anni: depresso cronico, tossico, maledetto. Poco si continua a dire, in proporzione, su una vita all’insegna del punk, sulla poetica e l’intuizione “politica” di Cobain e dei Nirvana. Certo, nella scrittura e nella musica di Kurt hanno pesato come un macigno i dolori dell’infanzia, l’abbandono, la malattia. Ma Cobain non è stato divorato solo dal demone del solipsismo: la sua vita ha riguardato la vicenda stessa degli anni ’90 in cui l’America si risveglia confusa e arrabbiata dopo l’abbuffata ideologica (il reaganismo) degli anni ‘80, la quotidianità distorta della provincia americana (le muddy banks of Whiskah) dove dominava l’apatia, l’implosione del rock’n roll nello show per lui che intendeva portare un sogno – la sua musica – in giro assieme a Krist Novoselic e Dave Grohl.

Avendo compreso ben presto, già prima del boom di Nevermind, il destino che l’attendeva Cobain cantava così tutto il suo disagio: «Vendeteci l’intrattenimento» (Smells like teen spirit); «Servi i servitori» (Serve the servants); «Non sono come loro ma posso fingere» (Dumb). Metteva se stesso in prima linea Kurt, in un rapporto conflittuale con i manager, con il sistema della pop-music. Storica la sua forma di “disobbedienza” quando – vincitore degli Mtv Awards – iniziò a strimpellare creando panico tra gli organizzatori Rape me, (Stuprami), per poi continuare con il pezzo concordato in scaletta, Lithium.

[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=hTWKbfoikeg[/youtube]

Dissacrante, ironico, ribelle ma sincero altrettanto pubblicamente: tanto che non smetteva di ammettere che l’altro grande problema era l’incomunicabilità che attraversava se stesso e la sua vita personale, dalla frattura con i genitori fino all’amore rock e invasivo dei fan a quello tormentato ma sincero con Courtney Love. E compreso che alla fine della “giostra” arriva la resa dei conti la canta così in You know You’re right, l’ultima canzone, liberatoria: «Io non ti infastidirò più/ Io non ti prometterò più/  Io non ti seguirò più/Io non ti infastidirò più/Non dirò più una parola/Striscerò via per sempre».

@barbadilloit

@rapisardant

Antonio Rapisarda

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Tags: antonioBarbadillocobaingrungein uterokurtmusicanevermindnirvanapunkrapisardaseattle

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