“Sono andato in Patagonia“. Chi non ha mai sognato, almeno una volta nella vita, di licenziarsi dal proprio posto di lavoro scrivendo un telegramma così? Bruce Chatwin l’ha fatto, nel 1974, abbandonando l’impiego di collaboratore delle pagine culturali del prestigioso Sunday Times. E nell’immenso sud dell’Argentina ci è andato per davvero, vagabondando per sei mesi e gettando le basi per il suo primo libro, che sarà un successo planetario: In Patagonia, appunto.
Se non fosse scomparso prematuramente il 18 gennaio del 1989, forse nei successivi ventiquattro anni di vita (oggi ne avrebbe 73) Chatwin ci avrebbe regalato altri gioielli narrativi. Non molti, perché non era scrittore di quantità. In poco più di vent’anni di attività letteraria ha realizzato cinque romanzi (termine improprio, perché le sue opere sono di difficile catalogazione), una raccolta di saggi e racconti, un’antologia di frammenti uscita postuma, un volumetto scritto a quattro mani con Paul Theroux e un paio di libri fotografici.
Scrittore di libri di viaggio, l’hanno definito giornalisti ed editori privi di fantasia. Viaggio sì, ma dell’anima. Narratore di sensazioni ancestrali, ma al tempo stesso documentarista, antropologo, etnologo, cultore di miti e leggende. E’ impossibile descrivere Chatwin con una sola parola. Lui stesso non ha mai amato l’etichetta di “scrittore di viaggio”.“Viaggiare per lui significava occuparsi di archeologia, di vicende antropologiche, di personaggi strani che vivevano in posti strani – ha scritto Stefano Malatesta su La Repubblica – Era andato in Araucania sulle tracce di un mitomane francese che girava per le Ande, firmando patti di guerra con gli indios e facendosi nominare Imperatore dell’Araucania. O nella Terra del Fuoco per incontrare gli ultimi yaganes, una popolazione che possedeva un vocabolario di trentamila parole, e ne adoperava una cinquantina solo per dire mangiare il pesce”.
E’ più facile dire ciò che Chatwin non era: non era uno studioso universitario, non era un cronista, non aveva un approccio scientifico con gli “altri mondi” che andava a visitare con l’occhio del fanciullo e la metodologia del vagabondo: da solo, a piedi, in treno, in autostop. Uno zaino, un bloc-notes moleskine per scrivere i suoi appunti e via. “Perdere il passaporto era l’ultima delle mie preoccupazioni, perdere un taccuino era una catastrofe“, scrisse una volta. Chatwin caso mai era un moderno cantastorie, che attingeva dalla storia e dalle leggende popolari per creare miti moderni.
Nato nel 1940 a Sheffield, nell’Inghilterra centrale, da un’agiata famiglia borghese, Bruce trascorre gli anni giovanili in collegio e manifesta sin da ragazzino uno spiccato interesse per la geografia e la letteratura: passa ore attaccato alle mappe dell’atlante del Times e a leggere Byron e Flaubert. Terminato il college rifiuta di andare all’università e trova un impiego alla casa d’aste Sotheby’s, dove in breve tempo fa strada sino a diventare un apprezzato dirigente. “La mia carriera ha seguito un percorso inverso rispetto alla norma – spiegherà in seguito – in quanto ho iniziato come sgradevole piccolo capitalista in una grossa azienda in cui mi sono egregiamente affermato, facendo il leccapiedi, e d’un tratto, arrivato ai venticinque anni, mi sono accorto che odiavo ogni attimo di quella vita. Dovevo trovare un’altra strada“.
Nel corso di alcuni viaggi di lavoro riscopre la vecchia passione per per le antichità e per il vagabondaggio in giro per il mondo, così decide di lasciare Sotheby’s e di iscriversi all’università di Edimburgo, facoltà di archeologia. Studia per alcuni anni, ma non termina il corso di laurea. E’ il 1968 e anche in Gran Bretagna, come in tutto il mondo occidentale, gli studenti alzano barricate; ma lo studente Chatwin, che sarà sempre un impolitico, non ci fa caso. “Era concentratissimo nel preparare una mostra dedicata all’arte nomade delle steppe asiatiche, nel periodo tra il V e il VI secolo avanti Cristo, per conto dell’Asia House Gallery di New York“, scrive Roberto Alfatti Appetiti nel bel ritratto che gli ha dedicato sul mensile Area.
Il concetto di nomadismo per Chatwin comincia a diventare un’ossessione culturale. Si propone di scrivere un testo che restituisca ai popoli nomadi un posto di rilievo nella storia dell’umanità: “Ciò che mi interessava di più erano gli individui sfuggiti alla classificazione archeologica, i nomadi, che avevano lasciato tracce sul terreno e non avevano costruito piramidi“. Continua a viaggiare, approfittando anche del nuovo lavoro come giornalista culturale del Sunday Times: va in Afghanistan, Algeria, Mauritania, Iran, Cina, Unione Sovietica, Medio Oriente. Poi, d’improvviso, arriva la svolta della Patagonia. Si licenzia dal giornale e viaggia per sei mesi tra il sud dell’Argentina e la Terra del Fuoco.
Nel 1977 pubblica il suo primo libro, In Patagonia, ed è un successo strabiliante. Continua a viaggiare e continua a scrivere. Nel 1980 arriva Il viceré di Ouidah, sulla tratta degli schiavi fra l’Africa e il Brasile; e due anni dopo Sulla collina nera, uno strano romanzo che non descrive Paesi lontanissimi ma è ambientato nel Galles più profondo. “Ho voluto scrivere qualcosa su due personaggi che non si sono mai mossi da casa spiega l’autore inglese – perché sono consapevole che nessun uomo può vagabondare senza una base. Bisogna avere una sorta di cerchio magico a cui si appartiene. Non necessariamente il posto in cui si nati o in cui si stati allevati. E’ un posto con cui ci si identifica“.
Seguono Le vie dei canti (1987), sugli aborigeni australiani; Utz (1988), storia di un collezionista di oggetti antichi; e Che ci faccio qui (1989), raccolta di scritti e saggi. Dall’incontro con un altro grande “visionario” della cultura europea, il regista tedesco Werner Herzog, in questo periodo nasce la versione cinematografica di Il viceré di Ouidah, e cioè Cobra verde, film con Klaus Kinski.
Sono gli ultimi anni di una vita randagia. Chatwin, che da molto tempo è sposato con un’ex collega americana di Sotheby’s, Elizabeth Chanler, più amica e compagna che vera moglie, è malato di Aids. Alcuni amici sanno della sua omosessualità (o forse sarebbe meglio dire bisessualità), ma lui non ne ha mai fatto cenno, non è certo tipo da Gay Pride. Anzi, per giustificare il male che lo stava divorando ricorre a spiegazioni inverosimili, come il contagio da un verme cinese o la presenza nel suo organismo di uno strano fungo contratto durante uno dei suoi viaggi. Trascorre gli ultimi mesi su una sedia a rotelle nei pressi di Nizza, dove si è trasferito in compagnia della moglie.
Muore il 18 gennaio del 1989, lasciandoci i vecchi taccuini moleskine ancora ingombri di appunti (nel 1997 uscirà postuma la raccolta Anatomia dell’irrequietezza) e una frase che suona come l’epitaffio di un vero nomade della cultura contemporanea: “La vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada. La vita stessa un viaggio da fare a piedi“.