Sono un elettore del Pd, quindi del centrosinistra. Ma ho deciso che non andrò a votare alle primarie. Ora che Bersani, Renzi, Vendola e gli altri candidati sono partiti per i loro tour festosi, vorrei cercare di spiegare perché non bisogna prendere per atteggiamento molto democratico una rissosità debilitante.
Prima di tutto le primarie servono a dividere. Producono slogan, polemiche, sospetti, fazioni, violenza verbale. Addirittura smuovono capi storici del partito a dire che se vincerà uno o l’altro, finirà tutto. Per disabitudine e carattere degli italiani, crea delle inimicizie epocali, delle fazioni divise all’interno dello stesso partito che durano anni.
Nella pratica politica, poi, le primarie estremizzano le ipotesi di programma, per renderle più efficaci, e quanto più diverse possibili dal concorrente; e quindi al posto di un programma politico si impone la propaganda politica. E qui arriviamo al punto più dolente: la politica è sintesi, luogo d’incontro tra diversi punti di vista sulla realtà. Sintesi che diventa sempre più necessaria se bisogna puntare a governare il Paese.
Spingendo alla divisione e non alla sintesi, le primarie fanno in modo che i partiti non producano più politica, ma la subiscano. Non fanno congressi veri, non hanno linee di programma. Ma aspettano quelle determinate dal vincitore delle primarie. Perché si sostiene, specie in questa contesa che si sta preparando, che il programma del vincitore sarà il programma proposto alle elezioni e quindi sarà il programma di governo.
Questo può accadere in Paesi dove il presidente eletto ha pieni poteri. Ma qui in Italia, alla fine delle primarie, trattandosi di altro sistema democratico, il programma proprio va confrontato con quello degli altri: la sintesi bisognerà farla comunque, dopo, alla vigilia delle elezioni, o (peggio) ancora dopo, durante la formazione e gli atti del governo. Tutti i governi di centrosinistra sono finiti per questo motivo, perché la resa dei conti era stata furbescamente rimandata fino al voto di una legge in parlamento.
Le primarie aumentano le divisioni prima, e così rendono ancora più difficili le mediazioni poi. Diverso e logico sarebbe fare congressi (veri) di partito che producano linee programmatiche, confrontarle con altri partiti della coalizione, trovare un punto di compromesso su una linea di governabilità, e a quel punto indicare un premier che sintetizzi tutto ciò. Infine andare compatti alle elezioni. E chiamare a raccolta, quel giorno, l’intero popolo del centrosinistra.
Perché un’altra propaganda diffusa dalle primarie è la conta oceanica del popolo del centrosinistra. C’è ogni volta una straordinaria beatitudine tra coloro che si mettono in fila nei seggi improvvisati, si contano come tanti, e pensano che a prescindere dalle elezioni, stanno dando una grande lezione di democrazia.
Questa felicità è superflua: la conta dei votanti di centrosinistra si fa il giorno delle elezioni, quelle vere. È lì che bisogna mettersi in fila. In più, in questa conta di simili, possono ancora infiltrarsi elettori di altri partiti: è inconcepibile che il leader di una coalizione sia scelto anche, in modo più o meno malizioso o ostruzionistico, da persone dell’altra coalizione. A prescindere dal numero di infiltrati, è il principio di parte che viene ostruito.
Da elettore del Pd, poi, sono ancora più sconcertato da queste primarie. Il risultato sarà il seguente: se vince uno del Pd (Bersani), era una vittoria scontata e quindi non si può considerare una vittoria; se vince un altro del Pd (Renzi), il partito ha perso (e già questo è un paradosso indecifrabile); se vince un esterno al Pd (Vendola ora, alcuni sindaci nel passato recente) è una sconfitta sonora del Pd.
Di conseguenza, il Pd è il primo gioioso sostenitore di una competizione che non vincerà in ogni caso. Le primarie sono lo specchio più lucente della democrazia di questi anni, che da rappresentativa si sta trasformando in «meticolosa»: i cittadini vengono chiamati di continuo a decidere direttamente, su tutto. Rendendo così più sottile il confine tra democrazia e populismo.
*dal Corriere della Sera