«Ho avuto un culo bestiale nella mia vita. Ho avuto la fortuna di stare tra i piedi di Luigi Pintor, di Indro Montanelli, di Claudio Rinaldi. Ma Dio me l’ha fatta pagare in quest’ultima parte della mia vita. Come diceva Leonardo Sciascia: se uscite di casa per incontrare una persona intelligente bisogna passare attraverso sette cretini. Secondo i miei calcoli questa percentuale, adesso, è passata da sette a ventidue». Giampiero Mughini con il suo “Addio, gran secolo dei nostri vent’anni. Città, eroi e bad girls del Novecento” (Bompiani, pp. 382. € 17) ci porta dentro le maglie di una stagione inquieta, dinamica, a tratti terribile. E ci regala, a modo suo, un abbecedario per sopravvivere a quella “sera” che stiamo vivendo.
Solo qualche anno fa si brindava alla fine del ‘900 con tante speranze. Oggi davanti a una crisi generale dell’Occidente quasi quasi…
Nessuno avrebbe previsto che sarebbe andata così. C’è stata innanzi tutto quella miccia internazionale: una parte del mondo islamico, la fazione assassina, che ha lanciato una sfida spaventevole all’Occidente. Poi la crisi economica, che non è solo una crisi ma una minaccia di distruzione di un modo di vita, del nostro welfare, della promessa di lavoro alle nuove generazioni. Infine la rivoluzione virtuale, per cui alle riviste da leggere con la matita in mano si è sostituita l’immagine fuggevole dei messaggi a 140 battute. Questi ultimi non fanno riferimento ai saggi di Bobbio ma a un tweet mandato da Tizio a Caio o agli exploit del guitto più noto d’Italia ossia Beppe Grillo…
Indietro tutta?
No. Non è che dobbiamo lasciarci annebbiare gli occhi dalla memoria e dai suoi fantasmi. In quel ‘900 ci sono state due guerre mondiali. È il secolo dei gulag e dei lager, è il secolo dell’Olocausto. Però che cos’era successo? Alla fine del Novecento qualcuno aveva scritto “la storia è finita”, e voleva dire che era conclusa quella storia, quella di Stalingrado, della guerra fredda. E ci abbiamo creduto. E poi ne è iniziata un’altra. Una guerra che sta nelle nostre giornate, nelle nostre coscienze, sta al desco delle nostre famiglie, nei bilanci delle famiglie italiane che dall’oggi al domani si ritrovano a fronteggiare il poco che hanno.
Che cosa ha significato avere avuto vent’anni alla fine degli anni ’60?
Abbiamo usufruito di un vento eccezionalmente favorevole che spirava dalla società. Un vento che moltiplicava il reddito. La società italiana è scossa alle fondamenta da un’evoluzione dell’economica, del costume, dei linguaggi culturali. E allora dentro quel vento noi che abbiamo avuto vent’anni siamo andati all’attacco. Ma era facile andare all’attacco, tutto sembrava a portata di mano, tutto sembrava moltiplicarsi: i soldi in casa, i volumi nelle librerie, i dischi nei negozi. E c’erano sempre più film e ragazze più disinibite. Dentro tutta questa meraviglia, poi, il politichese era miserabile come sempre. Da lì è venuto il terrorismo, e non è che sia stato un incidente. Gli assassini sorsero tra noi.
Quando vede i contestatori di oggi, gli indignados, quelli di “Occupy Wall Street” che cosa pensa?
Fenomeni assolutamente inediti, che non hanno alcun rapporto con quelli di allora. Non mi sembrano manifestazioni molto importanti. Sono in parte figlie dell’umore e della comunicazione web. Sono tutti fenomeni che così come sono venuti se ne andranno senza lasciare traccia.
Eravate meglio voi?
Non diciamo sciocchezze! Auguro ai giovani di vivere al meglio la propria giovinezza, che è un’età difficile. Dalla quale, però, prima si esce e meglio è. Prima uno smette di esser giovane e meglio è. Prima impara il duro linguaggio della vita, il duro linguaggio del dare e dell’avere nelle professioni e meglio è. Prima uno smette di darsi arie per il fatto di essere giovane e meglio è…
Mi sembra di intuire che ce l’ha con chi parla, come Renzi, di “rottamazione”…
Credo che uno non debba pensare di rottamare quelli che sono venuti prima di lui. Uno deve pensare di essere alla loro altezza. Io non pensavo di rottamare né mio padre né Pietro Nenni. Pensavo di continuare nel solco di una storia che in quel momento aveva dei tratti originali.
Ricorda, nel libro, le parole di Rossana Rossanda, che riferendosi al “partito” sosteneva quanto fosse totalizzante come esperienza. Le ultime performance della classe politica attuale che cosa le suscitano?
Non mi sono mai interessato della cronaca nera, e non me interesserò mai. Questo libro nasce anche da un mio disagio nei confronti del presente. Intendo il fatto che non mi sento più emozionalmente coinvolto da tanta parte del presente e dei suoi protagonisti se non per la strada del disprezzo intellettuale. Che vogliamo paragonare per caso Luigi Pintor a qualche macchietta televisiva?
Veniamo al capitolo “cattive ragazze”…
Personaggi che riassumono la femminilità drammatica e incandescente del Novecento…
Lei ricorda, a proposito, le figure di Colette Peignot o di Brigitte Bardot. Nell’accezione di oggi per “cattiva ragazza” in molti penseranno a Nicole Minetti…
La Minetti se la merita chi se la vuole meritare. In questo senso l’Italia è andata particolarmente giù, ha avuto un ictus. Indubbiamente ciò è stato favorito dalla centralità in ogni senso di un personaggio come Silvio Berlusconi e poi dall’antiberlusconismo. Si sono avviliti a vicenda.
Che cos’è che non abbiamo più?
Avevamo come presidentessa della Camera Nilde Iotti, ma persino la ragazzina della Lega, Irene Pivetti non sfigurava. Certo, non abbiamo mai avuto una Thatcher, ma donne intelligenti come Rosy Bindi o Margherita Boniver sì. Poi, nell’ultima stagione, vi è stato il trasferimento delle soubrette di serie B e C nelle istituzioni.
Alla fine della fiera, meglio la società ideologica o quella liquida?
Meglio liquida. L’importante è che le istituzioni reggano. Il nostro dramma non è la liquidità. È che le nostre strutture amministrative sono quelle che sono, le più disastrate fra quelle di una società industriale. In nessun altro Paese un’amministrazione pubblica paga dopo nove mesi quelli cui ha chiesto un lavoro. La liquidità trova le sue forme se nessuno mette mani alle pistole. Nella società ideologica, a “fin di bene”, la gente lo faceva.
Ultima cosa. Ha definito il ‘900 il secolo della carta e della plastica. Qual è l’elemento di questo secolo?
Naturalmente il virtuale. Assieme al virtuale, purtroppo, ci sono altre cose. Questo è il momento della penuria delle possibilità, delle occasioni. E quindi la penuria della speranza.
*dal Secolo d’Italia di domenica 30 settembre 2012