“Storia di un oblio” è uno spettacolo assordante. Come il frastuono dell’Inferno dantesco in cui l’urlo stordisce l’anima più delle orecchie. L’attore Vincenzo Pirrotta urla. Urla una morte inutile. Inutili come le morti che non trovano un senso né nella naturalità dell’esistenza né nell’atto eroico e neppure nel rischio dell’azione. Nemmeno ingiuste: solo inutili. Gratuite e disumane.
Morti che mettono un punto alle microstorie destinate a restare tali anche quando la violenza che le investe richiederebbe lo scandalo. Un uomo – un nero, un “frocio” o un uomo qualunque- è entrato in un supermercato con pochi soldi e tanta sete, ha preso una lattina di birra e per puro istinto l’ha bevuta. Pochi istanti e un gruppo di vigilanti lo sta trascina verso il magazzino sul retro. Qui viene pestato a morte. Nessuno vedrà. Nessuno saprà se l’uomo avrebbe pagato la lattina o se l’avrebbe rubata per delinquenza o per bisogno. Nessuno lo saprà, né il pubblico in platea, né quello messo sul palcoscenico in una reinterpretazione della quarta parete che solo un erede di Pirandello, qual è Roberto Andò poteva ricreare, a conferma della sua cifra stilistica e tematica. Nessuno perché il tema è un altro, il triangolo mefitico di brutalità, frustrazione, dominio. Il punto alla violenta banalità di questa storia, lo mette il regista Roberto Andò al testo di Laurent Mauvignier “Ce que j’appelle oubli”: una frase lunga sessanta pagine trova il punto nella trasposizione teatrale, perché il teatro è già nelle sue origini il luogo dove l’inenarrabile prende corpo e si realizza. Quando il corpo non ha più voce, spetta soprattutto al teatro mostrarlo. “Storia di un oblìo” mostra al centro della scena un cadavere chiuso in una sacca nera. Accanto, un uomo piegato su una sedia, ai piedi del catafalco le buste di plastica dei reperti di una scena del crimine. L’uomo pian piano alza la testa e inizia una sorta di canto a più voci – il narratore fuori scena, il morto e il fratello che lo piange- coro con una sola voce, quella di Vincenzo Pirrotta che in cinquantacinque minuti regala al pubblico lo schiaffo e il pugno. Un pezzo di teatro in cui l’imperdonabile, elevato a categoria della conoscenza, grida urgenza. “Storia di un oblìo” è una pagina di teatro civile e quanto sia necessario è fin troppo chiaro. A interpretarla un bravissimo Vincenzo Pirrotta. Forse solo lui poteva fare materia della rabbia, della pietà, del dolore, della sconfitta -“il suo silenzio è l’ultima cosa che gli appartiene”- di questo testo dalla prosa torrenziale.
Un saggio di Stefania Rimini su Pirrotta si intitola “Le maschere non si scelgono a caso”. Pirrotta non ha scelto a caso di fare della sua faccia severa interrotta dalla dolcezza dello sguardo, della sua voce vibrante e del suo corpo massiccio sintesi scenica. Palermitano, diplomato all’Accademia del Dramma Antico e allievo di Mimmo Cuticchio, Pirrotta ha fatto mestiere della sperimentazione e della ricerca. Diviso tra cinema e teatro, può vantare una carriera costellata di incontri con grandi registi e di ruoli forti. Ha esordito come regista con il film “Spaccaossa”, candidato al David di Donatello e ai Nastri d’Argento e ha firmato regie teatrali e liriche. Gli rubiamo qualche battuta al termine della prima replica di “Storia di un oblio” al Teatro Massimo di Siracusa, una tappa della tournee che toccherà ancora Catania, Roma al Teatro India e Trieste.
Ho potuto assistere a Storia di un oblìo dalla posizione privilegiata del palcoscenico. Ancora una volta Vicenzo Pirrotta offre il corpo alla scena, qui con una grammatica teatrale che ricorda un’espressione di Pier Paolo Pasolini “disumana umanità”
“E’ esattamente questo. La riflessione offerta dal testo è sul senso dell’esistenza e sul senso del dolore. Il corpo è il monumento su cui si è costruito tutto il racconto di Mauvigneir, una vera e propria via Crucis. Nel caso della messinscena avviene un’iperbole: si parla di corpo, ma il corpo è dell’attore stesso con un altro disteso sul catafalco. Nasce un’epifania, una sorta di Via Crucis dove il dolore raddoppia nei due corpi in scena. Con Andò abbiamo portato agli eccessi certi movimenti, come quando ho saputo di non poter fare a meno di percuotermi nella scena, volevo sentire i rumori dei colpi inferti dai vigilantes e mi sono schiaffeggiato. Eccesso è la mia nudità che avvicina alla carne martoriata del ragazzo”.
A proposito di movimenti, lei ha una formazione legata alla tradizione del cunto e alla teatralità siciliana. Non trova che Storia di un oblio abbia un simile andamento?
“Un retaggio c’è sempre. Potremmo azzardare a definire lo spettacolo un cunto 2.0, perché nel cunto il raccontatore accoglie diverse dimensioni in un solo corpo. Qui il personaggio è uno, il fratello del ragazzo morto, che a sua volta è il pubblico sul palco. Un personaggio fa vedere tutte le fasi della via Crucis di cui parlavo e alla fine consegna il ragazzo alla morte. Quindi, sì possiamo parlare anche di una tecnica che si avvicina a quella del cunto”.
Teatro e cinema non sembrano avere nelle sue opere soluzione di continuità sia di stile che di temi. Una cifra propria di quella che oserei definire scuola siciliana. E’ d’accordo?
“I Sud del mondo hanno l’emergenza di raccontare certe disperazioni e certi dubbi. Non credo sia casuale che alcune espressioni artistiche provengano da lì. Per esempio, Emma Dante affonda le mani in una disperazione che se non fosse siciliana non avrebbe la stessa forza. La geografia di provenienza degli artisti incide, non completamente ma moltissimo”.
Lei mostra la foto di Stefano Cucchi saldando così la cronaca del testo di Mauvignier a un fatto di cronaca che ci riguarda più da vicino, una ferita italiana. Il suo è un teatro civile, anche per quelli che sono stati nel tempo i suoi compagni di viaggio. Penso allo stesso Andò, Ficarra e Picone, Luigi Lo Cascio e tutta una tradizione palermitana e siciliana. Quanto è importante oggi fare teatro civile?
“Il teatro è resistenza. L’arte deve essere resistenza, oggi più che mai necessaria. Voglio che il mio teatro sia rivoluzionario. Rivoluzionare le coscienze delle persone è il compito che mi sono dato come artista. Questo spettacolo ci insegna che la miseria, la disperazione sono accanto a noi giorno dopo giorno. Ecco, noi artisti abbiamo il dovere di non consegnarla appunto all’oblio”.