Per ogni attore c’è un momento in cui il pubblico ne scopre la potenza scenica. Per Massimo Cimaglia quel momento è arrivato con addosso i panni faticosi di Polifemo. In quel momento, nella cavea del Teatro Greco di Siracusa e dentro la magia allestita da Giuliano Peparini per «Ulisse, l’ultima Odissea», Massimo Cimaglia, che quel Teatro ha calcato dal 2013, ha sconquassato la scena con una vocalità eccezionale e una altrettanto eccezionale fisicità. Vederlo adesso nel ruolo di re Tindaro nello spettacolo diretto da Daniele Salvo «Gli spartani” è la conferma della solennità del suo registro attoriale.
Solenne è Cimaglia, artista a tutto tondo, anche quando si cimenta nella comicità, l’odio-amore di chi calca un palcoscenico. Debutterà tra poco con il ruolo divertente – ci assicura- di monsignor O’Hara in «Sister Act» ed è impegnato nelle riprese del nuovo film di Cristina Comencini. Varietà di ruoli vuol dire varietà di registri e Cimaglia li affronta tutti con quelli che per lui sono i fondamenti necessari del mestiere: determinazione, grinta e carattere perché “il talento non basta. Lo ricordo sempre ai miei allievi. Così come raccomando loro di studiare il teatro del passato. Spesso i ragazzi non hanno la consapevolezza di chi siano Ave Ninchi o Tino Buazzelli, Arnoldo Foà. Ho cominciato a fare teatro già grande. La prima cosa che ho fatto ho comprato un libro di storia del teatro italiano”. Quando ripensa agli inizi della carriera e a quello che chiama il “mio coming out” la voce stentorea tentenna, percorsa da un filo d’emozione “Ho cominciato a fare teatro a diciannove anni e poi ho completato la scuola di teatro quando ne avevo venticinque. E forse, stranamente, l’aver cominciato troppo tardi mi ha anche consentito di fare delle cose, delle cose importanti, molto belle. La mia determinazione nasce dall’essermi guadagnato tutto con le unghie, con i denti, con i muscoli, con la volontà assoluta di fare questo mestiere”
Cimaglia è di Taranto e per lui basta questo a definirlo “Se dovessi dire di me in una battuta, dove sono nato, dove sono e dove voglio finire La parola é Taranto.” Una carriera intensa che lo ha visto lavorare con i nomi più grandi del teatro italiano da Mario Carotenuto a Ugo Pagliai, da Mariano Rigilio a Piera Degli Esposti, e ancora Arnoldo Foà, Raf Vallone, Maddalena Crippa. Diretto da Luca De Fusco, Antonio Calenda, Yannis Kokkos, Muriel Mayette, Walter Pagliaro, Robert Carsen.
Alla domanda su quale personaggio sogna di aggiungere a quelli già interpretati risponde “Vorrei interpretare Enrico IV di Pirandello” Andrebbe corretto: dovrebbe essere Enrico IV. La maschera tragicomica, vertice della pazzia secondo Pirandello, troverebbe in Cimaglia scultorea verità teatrale. “Ormai l’età per Enrico IV è arrivata. Ricordo quando studiavo Diritto pubblico e tenevo sotto il libro le opere di Pirandello. Mi appassionai del personaggio e del monologo della pazzia. E quando lo vidi interpretato da Salvo Randone, capì che quello era ed è il mio sogno. Lo voglio fare a costo di farlo a casa mia con amici e parenti: per me è un pezzo di vita. Per ora lo propongo ai miei allievi”.
Se il teatro è fatica, sogno e mestiere, la vita di Massimo Cimaglia ne è una testimonianza.
Da sempre ho voluto fare l’attore ma le condizioni economiche della mia famiglia – io ero il più grande dei figli di genitori separati e sentivo il peso della responsabilità. Tenevo dentro di me il sogno del palcoscenico. Allora mi proposi con una lettera al Festival internazionale di Montalcino nonostante avessi solo esperienze di teatro amatoriale e un corso di teatro a Pisa. Ai tempi a Montalcino c’erano attori del calibro di Albertazzi. Fu mia madre a prendere la lettera di risposta in cui mi veniva assegnata una borsa di studio perché le mie parole avevano suscitato tenerezza. Avevo già ventun anni ed era il momento di fare il mio outing. Sono diventato attore. E conservo ancora quel biglietto dell’autobus da Firenze a Montalcino.
Lei ha una presenza scenica che definirei ieratica. Le piace? E’ frutto di un metodo?
Ieratico è un bellissimo complimento per un attore. E’ essenziale riuscire a trasmettere questo senso di forza e di pienezza. Ugo Pagliai, con cui ho fatto un Edipo, mi diceva “tu diventi quello che indossi, hai la capacità di entrare in sintonia con le cose che fai”
Il suo teatro è metodo o solo fatica?
Io non ho un metodo, io ho il metodo mio: credo nell’esperienza che ho fatto dalla commedia alla tragedia al teatro sperimentale. Non c’è un metodo, ma un modo di interpretare le cose. Sul metodo, però, voglio dire che oggi si chiede spesso all’attore di recitare in teatro come fosse al cinema. Anche se io ho lavorato continuo a lavorare per il cinema, rivendico al teatro la sua forma espressiva, che per me è la prima forma espressiva. Perché il teatro è un’energia che il cinema non riesce ad avere e non si possono costruire degli spettacoli teatrali come se fossero, per esempio, dei polizieschi americani. Riguardo alla fatica, ormai non c’è un personaggio che mi affatica davvero. All’inizio faticavo e avevo molti dubbi, perché per me il teatro è qualcosa di sacro e va servito nel migliore dei modi. Solo a trent’anni mi sono detto, sono all’altezza. Magari c’è una cosa che mi riesce meglio rispetto a un’altra, ma quello che io oggi rivendico è di metterci tutto me stesso e tutta la buona volontà. Getto sempre il cuore oltre l’ostacolo, poi sarà il pubblico a decidere. Per il teatro non ci sono pause: io ho mancato tutto, funerali, matrimoni e appuntamenti e ho provato a tutte le ore del giorno e della notte. Per me questo è servire il teatro. Quello dell’attore è un mestiere che si impossessa di te, però poi ti può regalare la carezza e l’urlo degli spettatori.
O un colpo di spada. La spada come metafora del teatro?
La scherma a teatro è importante perché insegna la postura. Io faccio sciabola, l’arma più arrembante, l’arma del guerriero. Nella spada c’è l’attesa e c’è la tattica. Nel fioretto invece la precisione, il passaggio è piccolo e riguarda solo il busto. Con la sciabola ti butti all’assalto. Per me ho coniato un termine, lo sciabol attore. La scherma non è uno sport che praticato da giovane. È capitato con «La bottega del caffè» di Luca de Fusco con Daniele Salvo. Io e Daniele dovevamo sfidarci a duello, eravamo giovani e lo abbiamo fatto, senza preparazione. Dopo ho preso qualche lezione con un maestro d’arme e di scherma d’arte. Nel 2000 sono stato nominato commissario nazionale della scherma scenica. All’’Accademia della Fondazione Inda ho insegnato scherma scenica.
Due sono le città importanti nella sua carriera. Siracusa, perché ha lavorato per l’Accademia d’Arte del Dramma Antico e ha calcato dal 2013 il Teatro Greco, e Taranto. Cosa vuol dire per un attore il legame con un luogo?
Niente può paragonarsi all’urlo del Teatro Greco quando finisci uno spettacolo. Se mi sento un privilegiato è per quell’impagabile emozione. Poi c’è Taranto. E’ importante che questa città venga ricordata non solo per l’inquinamento, per le fabbriche. Ma per la sua bellezza e la sua storia. Taranto per un momento è stata una potenza della Magna Grecia. Molti suoi artisti, dopo la conquista romana, si trasferirono a Roma e Taranto portò a Roma la cultura greca, tanto che i Romani la chiamarono la molle Taranto. Per me Taranto è una bella malattia, qui trovo ispirazione e sono veramente felice di poter lavorare nel mio territorio. Posso vantarmi di aver aperto in questo senso la strada a molti altri. In questo territorio c’era uno spazio incredibile per la cultura: in tanti l’hanno colto. Adesso credo che bisogna passare ad un’altra fase, migliorare la qualità delle troppe cose che si fanno
E qui arriva Taras Teatro Festival di cui Cimaglia è direttore artistico. Tre spettacoli (29, 30 settembre e 1 ottobre) su testi drammaturgici contemporanei, ispirati a temi del mondo classico. Inoltre, laboratori gratuiti con percorsi sull’antico, masterclass sul coro tragico greco, incontri sui vasai greci e il Retrofestival: un talk tra studiosi, attori e pubblico per un coinvolgimento totale. Il TTF è stato organizzato in contemporanea con il 62° Convegno Internazionale di Studi sulla Magna Grecia.
Come nasce il Taras Teatro Festival?
L’idea è di Terra Magica Arte e Cultura, la mia società. L’ho chiamata così perché la mia terra è una terra magica da cui possono nascere tante cose belle legate anche al passato. Taras Teatro Festival ha un sottotitolo: Scena antica, visioni contemporanee. Questo è un filo conduttore del mio lavoro sul territorio perché Taranto viene ricordata per l’inquinamento e per altre cose terribili e invece è un territorio incredibile per stratificazioni storiche, archeologiche e culturali. Il TTF si è aperto con la prima mondiale di «Gli Spartani» di Barbara Gizzi e con la regia di Daniele Salvo e i costumi di Daniele Gelsi. Nel prologo c’è la voce di Ugo Pagliai. Il protagonista è Giuseppe Sartori con cui ho lavorato in «Ulisse l’ultima odissea» e in «Edipo re». Con Edipo abbiamo vinto tutti i premi possibili, mentre lo spettacolo su Ulisse è veramente esploso. Nella prima replica di settembre ho avuto il piacere e ‘opportunità di dire al Presidente Mattarella quanta necessità abbia il teatro di essere sostenuto. «Gli Spartani», una sorta di prequel dell’Orestea di Eschilo, racconta due giovani Agamennone (Giuseppe Sartori) e Clitemnestra, alle prese con i propri fantasmi nella città di Sparta. Nell’opera centrale è il conflitto tra comunità e individualità, intensamente reso dal cast che vede tra gli altri Valeria Cimaglia (Clitemnestra), Elena Polic Greco (Leda) e Giulia Sanna (Elena). Debutto assoluto a Taranto, poi in replica per il 2024 a Sparta. Essere invitati a Sparta è per noi una grande soddisfazione anche perché lo spettacolo sarà inserito nelle celebrazioni della Battaglia delle Termopili.
Gli altri due spettacoli sono «Le Tragicomiche, vita da eroi» regia di Savino Maria Italiano e «L’orma di Ulisse»: protagonista Graziano Piazza, reduce dal premio “Le Maschere del Teatro”.
Antico e moderno: una querelle che anima il dibattito sull’attualizzazione dei testi classici, sul futuro del teatro. Per Lei è un falso dibattito?
Per rispondere devo tornare ai greci, al senso del teatro dei greci, perché loro hanno capito tutto. Il teatro e società, il teatro e terapia, il teatro ci fa pensare. Ecco perché io torno al mio territorio. Ho capito che il mio territorio ha un disperato bisogno di essere raccontato. Perché se le cose non si dicono, le cose si dimenticano. Bisogna avere la consapevolezza di appartenere alla tradizione e all’antichità. Attualizzare è anch’esso un modo per ricordare e per ragionare sul passato. Per esempio, in «Gli Spartani» lo abbiamo fatto nei costumi, Nel discorso di Tindaro che riflette sulla morte e su Sparta sconfitta, il re dice “io ho paura della dimenticanza. Quale male peggiore di questo ci hanno regalato gli dei immortali?”.