Francesco Morosi arriva in bici trafelato dall’ex aula bunker di Siracusa dove si prova “Ulisse, l’ultima Odissea”, lo spettacolo più atteso di questa 58 ͣ Stagione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico, per cui ha scritto la traduzione. “Quello che ho visto fino adesso (sospira n.d.r.) e da restare col fiato sospeso! L’Odissea è uno dei testi più emozionanti in assoluto! Peparini è un visionario con un favoloso istinto per il teatro”
Spettacolo atteso perché torna a Siracusa, dopo la regia del concerto di Claudio Baglioni lo scorso anno al Teatro Greco, il regista e coreografo Giuliano Peparini che ha abituato il suo pubblico a esperienze immersive tra danza, canto, circo, arti visive. Atteso per la presenza di Giuseppe Sartori, il magnifico Edipo di Robert Carsen che adesso si misura con una sfida che va oltre il gesto e la parola. Infine, l’attesa si mescola alla grande curiosità di capire cosa accadrà sulle sacre pietre del Teatro siracusano ancora una volta grembo accogliente di ogni arte e incanto. Francesco Morosi è una vecchia conoscenza del Teatro di Siracusa, a dispetto della giovane età che porta tutta nella gioia dello sguardo e del sorriso mentre racconta di questa nuova avventura di traduttore e un drammaturgo. Per Morosi l’Odissea è il poema della sopravvivenza e del dolore “Ci sarà l’Ulisse eroe della conoscenza e il macchinatore. Rileggendo il poema adesso, forse perché nel frattempo ho sofferto anche io, mi hanno colpito la fatica di Odisseo, il suo dolore e come vengono enfatizzati dalla struttura narrativa del poema. I racconti impongono a Odisseo di rivivere la sofferenza del racconto. C’è l’Ulisse compiaciuto del racconto come un aedo e c’è l’uomo che nella memoria scorge la fonte del dolore oltre che della conoscenza”. Lo stesso approccio di Guido Paduano traduttore di Omero “C’è tanto del suo metodo in questo mio lavoro. Paduano per me è quasi un papà”
Allievo di Guido Paduano – e basterebbe già questo- Francesco Morosi ha un eccezionale curriculum con uno sguardo particolare ad Aristofane ma quando gli si chiede se tradurrebbe una commedia del greco, risponde con un pizzico di verità e un sospetto di falsa modestia. “Tradurre una commedia è la cosa più difficile in assoluto, non tanto per sciogliere le parole quanto per trovare un tono comico credibile, estetico e non pecoreccio. Confesso: sono un vigliacco”.
In effetti, il talento di Morosi è stato chiaro al grande pubblico e agli esperti già lo scorso anno con la traduzione di “Edipo re” di Sofocle, messinscena con quattro candidature al premio “Maschere del Teatro”: una traduzione capace di tenere l’equilibrio tra contemporaneità e classicità. Quest’anno ha curato la drammaturgia di “Prometeo incatenato” di Leo Muscato e traduzione di Roberto Vecchioni. Morosi, membro del comitato scientifico di “Dioniso”, rivista dell’Inda di studi sul teatro, è un accademico senza paludamenti che non sia il controllo della materia linguistica e teatrale. Confessa che di solito traduce in biblioteca con il sottofondo musicale, accennando talvolta a un passo di danza: sarà per questo che la sua strada si è incrociata con quella di Peparini?
Di “Ulisse, l’ultima Odissea” lei firma il libretto: dobbiamo pensare a una mediazione tra segno linguistico e nota musicale?
Il testo di Omero viene presentato in una traduzione nuova fatta da me ed è un libretto perché c’è un principio di drammaturgia. Peparini aveva già prima di incontrarmi un’idea degli episodi da rappresentare tratti dai libri centrali dell’Odissea, i racconti di Ulisse ai Feaci. A me ha chiesto la traduzione e di legare gli episodi, rendendoli un po’ più teatrali e attoriali. Il lavoro di drammaturgia è stato facilissimo. Poi è stata aggiunta la prima parte con il proemio, passaggi del concilio degli dei e la tempesta del libro V, scena cui sono legatissimo. La gran parte del lavoro, però, l’aveva fatta Omero. La prima metà dell’Odissea ha già una sua drammaturgia: basta tradurre la parola aeroporto con reggia dei Feaci ed è fatta. Nello spettacolo Odisseo sarà un viaggiatore bloccato in aeroporto che racconterà ad altri viaggiatori le sue avventure e poi fra di essi alcuni diventeranno i personaggi dei suoi racconti.

Arriviamo al lavoro di traduzione. La traduzione dei classici per il teatro impone una scelta innanzitutto lessicale e prosodica. Si pensi al concetto di adeguatezza pragmatica della filosofa del linguaggio Francesca Ervas o della scelta dell’ellenista Franco Ferrari di ovviare al rapporto tra il ritmo dell’esametro e la lingua italiana, ricorrendo alle inarcature del verso. Lei fa riferimento a una scuola di traduzione?
Concordo sul principio dell’adeguatezza pragmatica. Nei prossimi giorni sarò a Venezia per un progetto internazionale sulla traduzione dei testi antichi in cui mi occuperò di traduzione per la performance. Il problema è capire cos’è il proprium di una traduzione visto che qualunque testo può essere performato, persino l’elenco del telefono. Quello che rende efficace una traduzione per il teatro è la sua coerenza con l’operazione estetica in cui questa traduzione viene utilizzata. Tanto più vero per traduzioni commissionate ad hoc, come capita a me con l’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Diciamo che ogni traduzione ha un valore e un effetto se messa in correlazione con gli altri elementi dello spettacolo: la parola è uno dei tanti codici che crea la comunicazione di uno spettacolo. Nel lavoro su Edipo ho fatto una traduzione finalizzata al teatro di Carsen, un teatro pulito, limpido, razionale. Quest’anno è un teatro emotivo anche dal punto di vista linguistico: la parola sarà pesante, ritmica, magica. Che è quello che Omero dice sui Feaci, muti dopo aver ascoltato Odisseo, “li tratteneva l’incanto”. Una parola capace di scatenare le immagini, i movimenti del corpo, la musica di Giuliano (Peparini, n.d.r,). Lavorare con lui mi ha dato l’emozione che cerco da sempre: le coreografie montate sulle parole prima che sulla musica. Questo per chi traduce è gratificante.
Ricerca del ritmo, dunque…
La mia non è una traduzione in metro anche se ho cercato degli stratagemmi per scandire la parola: ottonari, settenari ma in modo assolutamente non regolare, seguendo sia la qualità della comprensione in italiano sia la ritmicità della parola. Le parole sono concrete: nessun composto, gli epiteti sciolti in proposizioni relative in modo da ancorare la parola al suolo. Una parola concreta
Una parola personale e nello stesso tempo empirica?
In fondo la drammaturgia è un pretesto per raccontare storie e la parola deve essere capace di farci vedere delle immagini. Nel mio mondo ideale uno spettatore chiude gli occhi anche per qualche secondo, ascolta, li riapre e vede le immagini che le parole raccontano. Parole e immagini che si incontrano e si scontrano. Non ho avuto paura di tradurre per “Ulisse, l’ultima Odissea”- che non è una tragedia- un testo in qualche punto arcaico, nel senso di un testo non quotidiano. Mentre sia io che altri traduttori cerchiamo nel testo della tragedia un avvicinamento, qui si deve segnare un fossato, un allontanamento che proietti gli spettatori in una dimensione diversa. Trovare come in questo caso un approccio eretico totalizzante.
Per “Prometeo Incatenato” ha dovuto relazionarsi con un altro traduttore, Roberto Vecchioni.
Il testo di Eschilo è un testo ostico e io sono entrato in punta di piedi e senza matita blu, ma cercando un rapporto tra la traduzione e la messinscena. Ho trovato felice la traduzione di Vecchioni nei cori, nelle parti liriche.
Qual è il compito di un traduttore?
Per me, essere al servizio di uno spettacolo. Condividere e guidare le scelte estetiche dell’intera produzione. Bisogna che i diversi canali si armonizzino altrimenti può essere una traduzione esteticamente splendida ma che fatica a funzionare.
La lingua è identità, soprattutto quella classica dalla quale noi proveniamo. C’è un ritorno della lingua greca nei cori anche in questa Stagione. Oltre il compito estetico e artistico, non crede che la traduzione abbia un compito sociale e politico, oserei identitario?
Certamente. Il primo compito di una traduzione è farsi capire, il secondo è piacere nel senso non di essere piaciona ma di affascinare le persone, avvicinarle al testo. Oggi viviamo in un momento in cui legittimamente viene chiesto di giustificare la nostra posizione nella società: i testi su cui noi lavoriamo hanno una utilità grandissima per la società, di formazione delle persone che è il compito preliminare. Perché questi testi lo svolgano c’è bisogno di qualcuno che li sfidi, li interroghi, li porga, li porti. Li avvicini senza semplificarli. Riguardo al greco il discrimine è la credibilità, il rischio dell’antiquario.
Come si colloca nel dibattito tra attualizzazione e tradizione?
Attualizzare per me significa prendere un testo e collocarlo in un’epoca precisa. Contemporaneizzare significa mostrare gli elementi che lo rendono sempre vero, sempre vivo. Universale. “Edipo re” è uno spettacolo metafisico che nella nicchia di metafisicità in giacca e cravatta conteneva l’universalità.
Foto di Fondazione Inda, Maria Pia Ballarino, Franca Centaro, Laura Lezza