
In Italia non esiste un unico Museo di Storia Nazionale. Berlino ha il Deutsche Historische Museum. A Washington c’è il Museum of American History, a Versailles il Musée de l’Histoire de France.
Figli di una Storia policentrica, tra antiche repubbliche e nobili casati, nel nostro Paese dobbiamo spesso “fare” i conti con le tante, gloriose “micro identità” territoriali. Con ciò che ne discende anche dal punto di vista museale. E non solo.
Per “condividere” unitariamente le nostre vicende nazionali dovrà passare ancora qualche generazione, anche di storici, finalmente disposti a non farsi intrappolare nelle convenzioni di scuola, mettendo da parte la guerra delle lapidi e delle rispettive epurazioni. E finendola – una buona volta – con le responsabilità (altra cosa è la memoria storica) dei padri, dei nonni e dei bisnonni, che ormai riposano con le loro eredità spirituali.
Più importante sarebbe farsi carico della nostra complessità, riportandola nell’alveo dei fatti, ancor prima che di una memoria stratificata. Non è una fuga, al contrario. Nella misura in cui scegliere significa conoscere e perciò capire il senso delle differenze, ragionando per comparazioni piuttosto che rincorrere un’omogeneizzazione fasulla.
Pensiamo all’idea stessa del Risorgimento. Se ne facciamo l’espressione, pura e semplice, dell’ideologia piemontese, quella prima di Cavour poi di Giolitti, inevitabilmente arriveremo ad escludere un’ampia metà del Paese, stravolgendo l’essenza stessa del processo di integrazione nazionale. Non è solo un problema territoriale. L’ideale risorgimentale d’impronta piemontese, sostanzialmente laicista, positivista e moralistico (l’Italia buona impegnata a salvare quella “barbara” e ignorante) esclude strati consistenti della nostra cultura nazionale.
Giunti a questo punto è piuttosto il tempo di prendere consapevolezza delle nostre storie.
Siamo nati sui “particolarismi”, dimostrando però sul campo, quello della politica, della cultura e perfino bellico, di sapere superare ed integrare umori guelfi e ghibellini, nostalgie comunali ed orgoglio per le antiche monarchie meridionali (di Napoli e Palermo), insorgenze antigiacobine e carboneria. Con tutto questo dobbiamo continuare a fare i conti. Magari per scoprire un meridione più moderno e meno “cafone” di quanto non ci ha trasmesso certa storiografia patriottarda, con la prima ferrovia italiana, le moderne industrie, la prima flotta del Mediterraneo e la sua vitalissima cultura. Ma – nel contempo – incapace di svolgere quel ruolo “nazionale” che avrebbe potuto riequilibrare gli eccessi dell’ideologia piemontese. Potremmo/dovremmo parlare della fedeltà degli “alfieri” – tanto per richiamare il capolavoro di Carlo Alianello – di un’altra Italia e con loro i sacrifici e le idealità del mazzinianesimo, con il suo grande messaggio sociale, antesignano del “Socialismo Tricolore”.
E’ insomma giunto il tempo, in questo 2 giugno 2023, di recuperare storie piuttosto che di escluderle nel segno di un’errata idea di unità, prendendo atto delle tante contraddizioni che ci stanno alle spalle. Riprodurle nuovamente sarebbe un’iniziativa irrealistica e fuori dal tempo. Negarle un’operazione irrispettosa dei tanti piccoli frammenti che comunque costituiscono la nostra grande immagine nazionale.
A questa Storia andrebbe piuttosto tributato il pieno riconoscimento, attraverso un grande Museo della Storia Nazionale, nel quale riconoscere gli elementi costitutivi del nostro complesso processo d’integrazione, a partire dalla Magna Grecia per arrivare alla romanità e poi ancora il Medio Evo, il Rinascimento, fino alle vicende che portarono alla fine dei vecchi Stati preunitari e alla nostra forma attuale.
Il Presidente Carlo Azeglio Ciampi, che volle ripristinare, nel novembre 2000, la Festa della Repubblica, spostata, nel 1977, alla prima domenica di giugno, rimarcò il richiamo ai “simboli più significativi della nostra identità di Nazione”, un’identità – ci sia permessa la nota – che va evidentemente ben oltre i richiami al Risorgimento, alla Resistenza e alla Repubblica. Ha radici ben più profonde. E’ il senso di appartenenza alla Patria, in quanto “terra dei padri”, sintesi di memorie complesse e condivise.
Tra le scarse risorse disponibili l’impegno a costruire una sorta di tempio laico della Storia dell’Italia Unita appare un obiettivo realistico e percorribile, a cui potrebbero concorrere le diverse regioni, ognuna portando gli elementi essenziali della propria storia ed il rispettivo contributo alla memoria di un destino comune. Con questo spirito “unitario” non ci sarebbe contraddizione nel vedere accanto tante storie diverse, in grado di scrivere una nuova epopea collettiva. Per non sfuggire alle nostre “contraddizioni”, ma per coglierle nelle loro corretta portata. Sentendoci tutti figli di uno stesso destino, in cui finalmente riconoscersi.
Da un personaggio di alta statura culturale come Mario Bozzi Sentieri una proposta come quella avanzata non me la sarei aspettata.
In primo luogo, nel momento in cui non siamo più Stato, Nazione e Popolo a cosa serve un museo sull’identità nazionale?
Inoltre Caro Bozzi Sentieri, lei avanza tale proposta proprio in una data come quella del 2 giugno in quanto sappiamo bene- e lei che è uomo di Cultura lo sa e non può sottacere – che è stata proprio l’attuale Repubblica, nell’ultimo cinquantennio a demolire lo Stato ed a cancellare la Identità nazionale faticosamente costruita
Eppoi, ci pensa, nell’attuale clima di cancel culture, di caccia alle streghe a senso unico, di discriminazioni politiche e culturali, come potrebbe essere messo su un Museo sull’Identità Nazionale? Alla fine accadrebbe che l’Unita Nazionale sarebbe stata opera dei figli di Lenin e Stalin e non di monarchici e repubblicani risorgimentali.
Mi creda Bozzi Sentieri, lasciamo perdere, soprattutto nel rispetto di Coloro che fecero quella Unità Nazionale e per tutti Martiri, il Museo dell’Identità Nazionale. Riponiamo fiducia, anzi fede nel futuro serbando nei nostri cuori la Memoria.
Non visitiamo neppure i musei esistenti… L’unità nazionale è un sentimento, non un reperto museale.
Semmai la Festa Nazionale dovrebbe essere il 17 marzo (1861) non il giorno di un referendum divisivo e truffaldino.
Con tutto il rispetto per il presidente Ciampi, il 2 giugno rimane una data divisiva. La Repubblica vinse, se vinse, con un margine molto ristretto. In via Medina la Polizia all’epoca infiltrata da “ausiliari” ex partigiani comunisti sparò contro i dimostranti monarchici. La vera data unificante sarebbe il 4 novembre, con cui ebbe termine il processo di unificazione nazionale.
Il 4 novembre fu la messa in scena di una vittoria resa tale dal ritiro dell’esercito nemico, non della farlocca battaglia di Vittorio Veneto contro chi scappava!
E scappava non perchè il nostro esercito avesse vinto la guerra. Tranne piccolissime porzioni di territorio la guerra finì con gli Austro-Ungarici che occupavano estese porzioni di territorio italiano, non il contrario, dopo l’Armistizio di Salonicco e la richiesta di armistizio al presidente americano Wilson….
Certo , a Festa dell’Unità sarebbe da scegliersi fra il 17 Marzo ed il 4 Novembre, uniche date non divisive.
Non dimentichiamo che fu proprio l’attuale Repubblica fondata sul Comoromesso Storico DC-PCI, ad abolire, nel 1977, la Festa della Vittoria che si celebrava il 4 Novembre.
Proprio perché L’Unità Nazionale è in Sentimento, la Patria è al di sopra dei “patriottismi” costituzionali e di partito.
Ma è tutto da ricostruire pur conservando il Dovere della Memoria
Mentre Meloni, Crosetto, Piantedosi & Co. celebrano il 2 Giugno insieme a Mattarella, la Grecia mette al bando le ONG. Quattro imbarcazioni, tutte tedesche, hanno dovuto lasciare le acque greche. Una di loro, la Mare Go, ex Mare Liberum, ex Sea Watch 1 – qualche pennellata di vernice e di nuovo a solcare i mari – sta già operando al largo di Lampedusa, assistendo barchini tunisini. Cosa dicono i paladini di Giorgia ? Che ha bisogno di tempo ? Deve agire di concertazione con l’amichetta Ursula ?
Ringrazio quanti sono intervenuti criticamente in merito al mio articolo/provocazione.
A chi si domanda “nel momento in cui non siamo più Stato, Nazione e Popolo a cosa serve un museo sull’identità nazionale ?” la risposta da parte di chi crede nella necessità di dare nuova forma e forza all’idea di Stato, Nazione Popolo non può non passare dall’identificazione di strumenti “ricostruttivi”.
L’idea del Museo di Storia Nazionale nasce da questa necessità. Idea velleitaria ? Può darsi, ma mai come oggi abbiamo bisogno di ricostruire il nostro immaginario collettivo, di rimettere insieme i “cocci” della nostra Storia nazionale, di dare idee ed aspettative, soprattutto alle giovani generazioni. Scrolliamoci perciò di dosso le disillusioni figlie della vecchia egemonia culturale e proviamo a scommettere sulla possibilità di una nostra rinascita nazionale, fondata su radici ben salde. Sono forse un inguaribile illuso, ma sono in buona compagnia…
“Credo quia absurdum / credo nell’Italia e nella sua impossibile rinascita”: lo scriveva Ezra Pound, non proprio un intellettuale “qualunque”.
Ci sono i Musei del Risorgimento di Roma e Torino. Quello di Torino, a Palazzo Carignano, lo conobbi in prima elementare! Non bastano? O vogliamo costruire una bubbola antimonarchica, mazziniana, gramsciana, neoborbonica, cattoqualcosa? In tal caso non sarebbe unità. L’unità di ogni grande Stato è sempre stata definita non dalla concordia, ma dalla contrapposizione, dai conflitti, dal prevalere degli uni (uomini, idee, progetti) sugli altri.
L’unità tedesca è fichtiana, wagneriana e bismarckiana. Quella italiana manzoniana, verdiana e cavourriana. Nonostante Hitler e Mussolini. Piaccia o no. Inutile raccattare nella pattumiera della storia le ragioni degli sconfitti. Esse servono per una seria indagine e ricostruzione storiografica, non per forgiare sentimenti collettivi e positivi di nuove generazioni (peraltro quasi ignoranti di tutto).
Ma quali ragioni degli sconfitti, l’articolo di Bozzi Sentieri parla di andare ben oltre le vicende risorgimentali come pure quelle più recenti del ‘900. Propone di andare molto più indietro nella nostra storia, dunque il museo di Torino evidentemente non basta. È una proposta che condivido totalmente. Sono d’accordo sull’unità che si raggiunge con la contrapposizione, con il conflitto. Purtroppo nel nostro caso ha vinto il liberalismo piemontese, al quale preferisco senza dubbio il Mazzinianesimo, come pure le armi romane che per prime unirono la penisola. Perché mai non si dovrebbe raccontare la nostra storia ultra millenaria attraverso un museo che ne ripercorra i tratti salienti ? Peraltro, perché l’uso della formula Risorgimento se non nel senso di recupero dell’antica gloria ?
Liberalismo piemontese e Mazzinianesimo essenza del Risorgimento, dell’unico Risorgimento al quale non ha fatto seguito alcun secondo risorgimento proprio per quella specificità che ha visto monarchici e repubblicani Nazionali dalla stessa parte. E non è poco
Ma perchè le glorie romane sono troppo lontane nel tempo. Sono essenzialmente letterarie (Cesare). Tra la caduta dell’Impero, nel V secolo, e l’unificazione del 1861-1870 non c’è nulla in termini unitari. Qualche abbozzo ai tempi (brevi) di Napoleone. Il modello liberale piemontese era l’unico fattibile. Purtroppo per strada esso poi incontrò i nazionalisti, i crispini, Sonnino ecc. Mazzini era un sognatore con la mania delle maiuscole…
Basta allora andare al Museo della Civiltà Romana all’EUR…
Pound aveva il senso della realtà ancor meno di Mazzini… Insomma la cultura degli 8 milioni di bajonette già all’epoca dei sommergibili e dei bombardieri….
‘Credo quia absurdum’ è una parafrasi dell’apologeta latino Tertuliano in De Carne Christi; i dogmi del Cristianesimo vanno fervorosamente creduti, con una convinzione inversamente proporzionale alla loro razionalità e comprensibilità. Da non imitare quando si parla di Stati e di politica…