Prepariamoci ad un 25 aprile “di fuoco”, speriamo solo sul piano delle polemiche giornalistiche e politiche. La data – malgrado gli anni trascorsi – continua ad essere segnata da una ipocrisia profonda: quella della “guerra (civile) di popolo” e dell’unità d’intenti dei partigiani contro l’invasore tedesco e contro i fascisti.
In realtà non fu così. Non lo fu da subito, ancora prima dei giorni drammatici del 25 aprile 1945, in ragione delle divisioni ideologiche che ne macchiarono il fragile velo. Da qui bisognerebbe partire per evitare la facile retorica d’occasione e gli strumentalismi di parte, facendo parlare i fatti e gli autori che sul tema si sono impegnati con serietà e costanza. Ed anche un briciolo di sana polemica.
In prima fila Piero Operti, una delle figure storiche dell’antifascismo non comunista, che così fotografava (Lettera aperta a Benedetto Croce, 1946) la reale “condizione italiana”: “L’italiano medio, ieri falso fascista, oggi falso antifascista, si ricostruisce una verginità coprendo d’ingiurie un passato a cui vent’anni della sua vita sono strettamente intrecciati. Su questo italiano, che naviga solo nella direzione del vento, nelle ore difficili non si potrà contare: in quelle ore egli imbroglierà le vele e si terrà alla cappa. Sui fascisti sinceri sopravvissuti al macello si potrà contare, perché sono uomini e non sacchi segnavento. Gli antifascisti onesti si sentono infinitamente più vicini agli onesti fascisti che non alla turba delle scimmie urlatrici che oggi li applaudono senza conoscerli”.
Augusto Del Noce, appartenente all’antifascismo della sinistra cristiana, da cui si allontanò convinto dell’inconciliabilità tra cristianesimo e marxismo, nei primi Anni Settanta arrivò a contestare l’illusione dell’unità antifascista, ben convinto che il fascismo era finito ufficialmente il 25 aprile 1945 e non può risorgere “… semplicemente perché, dopo la sconfitta militare, si dissolse nelle sue varie componenti (le componenti del “fascio”!) che si inserirono o continuarono nei partiti politici presenti.”
E poi Renzo De Felice, il padre della moderna storiografia sul Ventennio , in gioventù comunista, dal 1956 approdato al social-riformismo, impegnato a comprendere il fascismo più che a demonizzarlo e per questo duramente contestato all’interno dell’Università, senza perciò venire meno alla sua battaglia di verità, che lo porterà, negli ultimi anni di vita, ad affiancare alla ricerca storica interventi di taglio più spiccatamente “politico”, come l’intervista, rilasciata, nel 1987, a Giuliano Ferrara e pubblicata da il “Corriere della Sera”, nella quale le norme contro il fascismo, contenute nella Costituzione, erano definite “grottesche” e quindi da abolire o come il libro-intervista Rosso e Nero con Pasquale Chessa, pubblicato nel 1995, in cui veniva smontata la “baracca resistenziale”, ivi compresa la retorica sulla partecipazione popolare alla “Guerra di liberazione”.
Tra questi studiosi vale la pena ricordare Giampaolo Pansa, anch’egli dimenticato dalla vulgata corrente, che – in premessa del suo I vinti non dimenticano (2010) – si domandava: “Come celebrare il 25 aprile ?”.
La domanda appare ancora pertinente e condivisibile. Nessuno – sia chiaro – vuole contestare il diritto a “celebrare” una data, con il suo martilogio, gli strazianti episodi di guerra fratricida, le divisioni che ha creato nel corpo vivo della Nazione. Ma – salvo smentite – il 25 aprile fu, nelle aspirazioni dei più, data di libertà. Ed allora non si può dimenticare come, in ragione dei propri studi, ci fu chi – come Pansa, giornalista ed intellettuale non ascrivibile “alla destra” – pagò sulla sua pelle il diritto ad esprimersi liberamente proprio su una data sensibile, quale continua ad essere il 25 aprile. Lo ricordò egli stesso in più occasioni, stigmatizzando le aggressioni subite dalle squadracce dei “postcomunisti violenti”. E questo soprattutto per avere posto il problema del Pci e del suo obiettivo nella guerra civile: fare dell’Italia un paese satellite dell’Unione Sovietica.
“Oggi – puntualizzava Pansa – l’Urss non esiste più, anche il Pci è scomparso. Eppure le sinistre continuano a non accettare che si parli delle pulsioni autoritarie dei comunisti italiani e del loro legame con Mosca”. Ciò che avvenne a cavallo degli anni che hanno preceduto e seguito il 25 aprile 1945 va compreso – seguiamo la traccia di Pansa – in ragione delle pulsioni e dei legami della sinistra italiana e dei suoi atti conseguenti: l’occupazione jugoslava di Trieste, Gorizia e Fiume, con migliaia di deportati scomparsi nel nulla; le stragi in Toscana dopo la Liberazione; la sorte delle donne fasciste, stuprate e poi soppresse; la strategia del “terrorismo rosso” per eccitare le rappresaglie ed estendere il conflitto; le uccisioni di comandanti partigiani e di politici socialisti; i lager infernali per i fascisti da fucilare. “La verità – scrive Pansa – è sempre una chimera. Ma non si può cercarla quando si è accecati dalla faziosità politica”.
Quando Pansa pone la domanda “Come celebrare il 25 aprile ?”, evidenzia perciò le contraddizioni di una parte dell’antifascismo, quello ancora oggi più aggressivo e culturalmente intollerante, impegnato a celebrare la retorica resistenziale dietro cui nascondere le proprie storiche contraddizioni.
Un’ipotesi di lavoro ? Alla luce di quanto scritto dagli studiosi citati: riportare la Storia al centro, andando oltre il mito per ritrovare le ragioni e la complessità dei fatti, spezzando, anche qui, la catena delle vecchie egemonie ideologiche.
La Nazione è memoria. E la memoria è condivisione, cioè superamento non tanto delle singole appartenenze quanto della difficoltà preconcetta a comprenderle, analizzarle, collocarle all’interno delle vicende nazionali. Alla Storia di fissare, sulla base delle verità provate, tali vicende e di interpellarle. “Sine ira et studio” (senza animosità e parzialità) – come ci insegnavano i vecchi maestri.