La sontuosa recensione di Donato Novellini a Servizio inutile, l’antologia di scritti che Henry de Montherlant pubblicò nel 1935 e che le Edizioni Settecolori hanno appena riedito, mi ha indotto a ripensare al mio rapporto con lo scrittore francese, cominciato nel 1972, quando lessi il numero speciale di settembre–ottobre di “Nouvelle Ecole”, il bimensile fondato cinque anni prima da Alain de Benoist, cui ero abbonato. Montherlant era morto suicida il 21 settembre dello stesso anno (alla simbologia degli equinozi e dei solstizi era molto affezionato) e mi colpì la ricchezza e la varietà degli articoli che ne affrontarono l’opera. In particolare fui attratto dalla memoria “generazionale” con cui Jean Mabire ricordò il suo rapporto adolescenziale di giovane liceale con l’opera dello scrittore: “En 1943, en classe di première, nous lisions Montherlant. En 1944, en classe de philo, nous découvrions Nietzsche. Tout était dans l’ordre des choses. Il nous semble aujourd’hui que c’est Zarathoustra qui vient de se tuer”. Ma anche gli altri collaboratori – da Michel Marmin a Jean Cau – erano di prim’ordine. Per tacere di un Gabriel Matzneff intervistato per l’occasione dallo stesso de Benoist.
Il numero di Nouvelle Ecole
Alcuni tratti del profilo di Montherlant mi sedussero, altri mi lasciarono perplesso. Ovviamente, Nouvelle Ecole insisteva sul “paganesimo” dello scrittore, trascurando la componente maurrassiana (ma anche giansenista) della sua formazione (era tra l’altro cugino dello scrittore cattolico Michel de Sant Pierre) e scivolava sulla questione – all’epoca più imbarazzante – della sua omosessualità. In realtà Montherlant aveva respinto sempre tali accuse, provenienti soprattutto dal brillante quanto pettegolo Roger de Peyrefitte, anche se sulla pederastia pronunciò giudizi altalenanti, come del resto (occorre riconoscerlo) su tutto. Restava aperta, naturalmente, la questione del suicidio, un gesto definito stoico in cui al timore di divenire cieco e non più autosufficiente si sovrapponeva la consapevolezza di avere completato la propria funzione nel mondo, di avere detto e scritto quello che aveva potuto.
Paradossalmente, lessi avidamente quel numero speciale, ma fui sedotto più dai biografi che dal biografato. Non avevo ancora compiuto vent’anni e attraversavo quell’età della vita in cui non si è a caccia di dubbi ma di certezze, perché (credo l’abbia detto Péguy), il ne faut de maître pour douter. Quel Gide di destra, con quel tanto di torbido che lo circondava, quel d’Annunzio d’Oltralpe, che reagì diversamente alla decomposizione del suo fisico, mi attraeva e al tempo stesso mi respingeva. Fu un altro suicida di talento, Pierre Drieu La Rochelle, col suo Gilles letto prima nella un po’ troppo letterale traduzione italiana di Luciano Bianciardi, poi nell’edizione Livre de Poche, il romanzo di formazione dei miei diciannove anni, e ancor oggi ne potrei recitare intere frasi.
Il mio approccio a Montherlant fu molto più ondivago. Lessi, o meglio provai a leggerne, Le Maître de Santiago, Il Gran Maestro di Santiago, ma non arrivai alla fine, e lo stesso avvenne per altri suoi scritti. Finché, sulla bancarella di un bouquiniste, durante un mio soggiorno parigino nell’agosto del 1981, non m’imbattei in una copia dei Célibataires, Gli scapoli, che forse ne è il capolavoro e piacque anche al non facile Malaparte, che scorse in quel libro “i primi passi di vero, grande scrittore”. In quel romanzo grande e amaro l’ex adolescente che si accostava alla soglia dei trent’anni col suo fardello di delusioni e di rancori scorse un’amara verità, e quasi una premonizione. E la sua lettura esercitò sulla mia vita un’influenza non credo felice. Poi, mi divertii col ciclo delle Jeunes filles (Le ragazze da marito), ma tutto finì lì.
Ne scrisse anche Mazneff
Oggi si sanno molte più cose su Montherlant di quante non se ne sapessero quarant’anni fa. Si sa che Peyrefitte non aveva tutti i torti, che l’amore dello scrittore per l’antica Grecia fu forse anche un alibi per imitarne in tutti i sensi i costumi, e pure il fatto che un Matzneff ne parlasse con simpatia in quella lontana intervista del 1972 può risultare sospetto. Eppure, tutto sommato, che importa? Montherlant non fu grande perché era, come dicono i francesi, un pédé, così come Hemingway non fu grande perché beveva, Brasillach perché venne fucilato, d’Annunzio perché si dedicava alle pratiche dannunziane, Céline perché era un mangiaebrei, Ginsberg perché era fatto. Lo fu, semmai, nonostante. Per questo è giunto il momento di rileggerlo, o, nel caso mio, di leggerlo, in gran parte. Tornare a lui, a più di mezzo secolo dalla sua tragica fine, non sarà forse un servizio inutile.