Il bomber del Bari Walid Cheddira – nato a Loreto – rivendica le sue radici nazionali marocchine in una intervista al settimanale Sette del Corriere della Sera, ribaltando gli stereotipi sulla rimozione delle identità nazionali nel nostro tempo. In più chiarisce che non avrebbe potuto accettare la convocazione azzurra perché il suo sogno era indossare la maglia della sua terra.
“La mia cultura è marocchina”
Lui e l’arbitro Orsato, che ha diretto la semifinale Argentina-Croazia, sono stati gli italiani ad andare più avanti nel torneo: «È un altro motivo di orgoglio per me. L’Italia è il Paese che ha accolto benissimo i miei genitori, il Paese dove sono nato e sono cresciuto: calcisticamente mi sento italiano. Se mi avesse chiamato Mancini? Il mio percorso è partito dal basso, dalle serie minori, non c’è mai stata l’occasione nemmeno nelle nazionali giovanili. E se ci fosse stata non avrei potuto accettare: la mia famiglia è marocchina, così come la mia cultura. Il mio sogno era giocare per il Marocco. Le radici e la cultura sono più importanti del successo e non si devono mai scordare. I miei genitori erano molto emozionati e orgogliosi prima e durante questo Mondiale: ma io non lo vivo come un riscatto, non c’è nulla da riscattare, ma un percorso da godersi, che spero sia solo all’inizio. Mio padre ha giocato anche lui nei campionati minori in Marocco, poi ha deciso di trasferirsi in Italia per cercare fortuna. A Loreto ha trovato lavoro come operaio, ora per fortuna può riposarsi un po’…». (dal magazine Sette)
Cheddira ha ragione. Basta che questo integrazionismo pirla!
Il ius soli è una sesquipedale scemenza, solo buona per il sinistrume sfasciatutto…
Questa vicenda dimostra che non basta un provvedimento amministrativo per fare un italiano. Assegnare la cittadinanza non significa aver “fatto” un italiano. Cheddira ha ragione: ciò che conta sono le radici, la famiglia, la lingua, la comunità e – per alcuni – anche la religione.