Mi piace camminare per le strade del centro della mia città, Firenze, in lunghe passeggiate mattutine che in genere si concludono nel parco delle Cascine, dove l’Alfieri dei Sepolcri “errava muto”, o nel giardino di Boboli, dove il Comune ha concesso, bontà sua, l’ingresso gratuito ai residenti. È un modo per rinnovare il mio dialogo con la bellezza, per respirare aria pulita (l’area intorno ai viali è chiusa quasi del tutto al traffico) e anche, con una camminata veloce, per tenere allenato il fisico, avendo superato da tempo quella che Balbo chiamava l’età dell’agnello.
Ieri, però, la mattina era piovuto e sono uscito solo nel tardo pomeriggio, più per il gusto di flâner in vista dei regali natalizi che per fare attività fisica. All’altezza del Duomo mi aspettava però una sorpresa. Via Roma, la strada centralissima che da piazza San Giovanni conduce in piazza della Repubblica, era divenuta una via di mezzo fra Piedigrotta e la Casbah. Slogan in un linguaggio incomprensibile, petardi, fuochi d’artificio che illuminavano i palazzi umbertini, il tratto di strada fra il caffè Gilli e l’Hotel Savoy quasi impercorribile. Ho visto una volante della Polizia farsi strada a fatica, e poi prudentemente eclissarsi. Donne col velo che condividevano l’allegria di padri e fratelli, ragazzotti esultanti, bandiere del Marocco sventolate o indossate come sciarpe. Più che in via Roma, mi è parso di trovarmi in via Rabat.
Non mi ci è voluto molto a collegare quanto accaduto alla vittoria del Marocco sul Portogallo, che fa della squadra nordafricana la prima compagine del Continente Nero, come si diceva una volta, ad accedere ai quarti di finale dei Mondiali. Mi sono ricordato di quanto avvenuto in altre città europee in occasione di manifestazioni di esultanza degenerate, e mi sono chiesto se non fosse il caso di allontanarmi. Poi l’istinto giornalistico è prevalso, e ho fotografato e filmato quanto avveniva, insieme a moltissimi altri residenti e turisti.
Credo che la maggior parte dei marocchini in festa fosse costituita da brave persone, che magari lavorano tutto l’anno, soprattutto le donne, e che facevano quello che fanno i tifosi italiani in occasioni analoghe. Credo pure che la Polizia abbia fatto bene a fare solo una comparsa fugace, visto che dopo un po’ l’assembramento si è sciolto senza danni. Eppure qualcosa in quella esplosione di gioia mi recava un sottile disagio. Sentire i petardi fare il botto a pochi metri dal Campanile di Giotto, scoprire che via Roma era divenuta ostaggio del popolo delle nostre banlieues, mi infiltrava una sottile inquietudine. Ma c’era anche qualcosa di più, forse d’irrazionale. Vedere nel cuore della mia città esultare i tifosi di un’altra nazionale di calcio – non stranieri di passaggio, ma residenti o addirittura cittadini italiani – mi ha fatto capire che ormai anche sul terreno dello sport siamo una nazione multietnica. Ci sono centinaia di migliaia di marocchini, e non solo, che godono dei vantaggi di vivere in Italia, di usufruire del nostro welfare, e magari di percepire i nostri redditi di cittadinanza, ma non si sentono e forse non si sentiranno mai italiani, anche se prima o poi otterranno, se non l’hanno già ottenuta, la cittadinanza. Penso a quanto avvenne a suo tempo a Parigi, quando allo stadio i tifosi di una squadra africana fischiarono la Marsigliese, inno che non gode delle mie simpatie per le sue radici giacobine, ma che rappresenta comunque la Francia. E non oso pensare a quello che sarebbe potuto succedere se l’Italia si fosse qualificata per i Mondiali e si fosse arrivati a una finale col Marocco o un’altra squadra africana; quello che è accaduto a Bruxelles, e di cui si è parlato pochissimo, è fin troppo istruttivo. Soprattutto non oso pensare a quanto avverrà a Parigi, comunque vada, in occasione della semifinale Marocco-Francia. Non credo che tiferanno Francia i “nuovi francesi”.
Oggi la sinistra radical-chic esulta per le vittorie delle squadre africane: il tifo sportivo, a lungo deriso come cafone quando si manifestava in favore della Nazionale, è divenuto una lodevole manifestazione di gioia per un riscatto terzomondista. A questo proposito mi tornano in mente i fotogrammi finali di un bel film girato da Dino Risi nel 1970: “In nome del popolo italiano”. Un magistrato d’assalto, che è riuscito a incriminare un imprenditore, detestato perché di destra, per l’assassinio di una studentessa, scopre, entrato in possesso del diario della giovane, che l’uomo è innocente. Potrebbe riabilitarlo, ma per caso si trova ad assistere al giubilo dei tifosi italiani per la nostra vittoria sull’Inghilterra ai Mondiali, nelle cui manifestazioni di esultanza, per altro sopra le righe, scopre una manifestazione di sciovinismo neofascista, una conferma dei peggiori vizi italiani, incarnati anche dall’imprenditore “fascista”. Venendo a patti con la coscienza, dunque, getta il diario nelle fiamme di un’auto incendiata dagli ultrà e rinuncia a riabilitare la vittima della sua faziosità.
Sono passati molti anni da allora e almeno dal 1982 il tifo per l’Italia è stato sdoganato, eccessi a parte; ma all’idea di avere le nostre banlieues che tifano per altre nazionali e fanno della pirotecnia in pieno centro non posso fare a meno di scorgere in questi mondiali una pedestre allegoria del Tramonto dell’Occidente.
Tutto vero. Ma la colpa risiede in quella politica di “porte aperte” a tutti, che non vedo come possa cambiare. Semmai sarà sempre peggio. Anche se Fratelli d’Italia vince, col suo 30 per cento d’intenzione di voto, ma che cosa mai potrà fare, avendo schierati contro tutti gli altri (destre comprese) e l’infame, corrotta Ue? Per forza deve fare l’ancella della NATO… Vale la pena essere la prima forza politica per avere sempre le mani legate? Fare e dire quel che vogliono gli altri? Non lo so, non ho una risposta, solo logica disillusione, e non è che prima mi aspettassi molto…
No sig. Nistri, non è un sentimento irrazionale. È del tutto razionale sentirsi a disagio e c’è da chiedersi cosa succederebbe a parti invertite. Non ho mai creduto nella società multietnica. Credo invece in una immigrazione controllata, quantitativamente e qualitativamente. Tuttavia, siamo ostaggio di una politica europea di accoglienza incontrollata portata avanti dalla parte peggiore della nostra razza (mi piace ancora usare questo termine). La Meloni gridava alla sostituzione etnica ed aveva ragione. Dovrebbe avere il coraggio di fare quello che prometteva, ossia blocco navale, subito. Sul fronte interno, abolire qualsiasi tipo di welfare e spingere chi lo sfrutta
a cambiare aria. È tempo di misure drastiche, senza le quali possiamo dire addio all’Italia che conosciamo.