Non è stato un fuoriclasse, ma solo un giocatore che, da «buon gregario», negli anni dell’agonismo calcistico dalla gavetta alla Serie A, ha percorso da centrocampista chilometri e chilometri sui campi di gioco che ha calcato. Guai però a mitizzare il calcio divinizzandone i protagonisti. Lui che negava autografi ai tifosi, fossero adulti, adolescenti, bambini, proprio perché il calcio non doveva essere mitizzato si attirò non poche antipatie. Questo è Paolo Sollier, nato nella torinese Chiomonte nel gennaio 1948, comunista da una vita.
Con le prime esperienze in oratorio Paolo, fin da giovanissimo, fu attivamente impegnato in vari gruppi cattolici. Iscrittosi a Scienze politiche, mollò l’università per andare a lavorare, in qualità di operaio, alla Fiat di Mirafiori. Correva l’anno 1969, le bombe cominciavano a fare rumore e, nel frattempo, Paolo Sollier aveva sposato la militanza politica aderendo ad Avanguardia Operaia, formazione extraparlamentare di estrema Sinistra. Poi giunse il grande calcio, nell’ambito del quale Sollier assurse agli onori della cronaca, a metà degli anni Settanta, allorquando, per rimarcare il suo credo comunista, era solito salutare dal campo di calcio tifosi ed amici a braccio sinistro alzato con il pugno chiuso; un saluto che, fatto con la maglia rossa del Perugia, ebbe un certo impatto… e che impatto!
Forse avrebbe potuto trovare comodo spazio nel Pci di Berlinguer e chissà… venire premiato con lo scranno parlamentare visto che, all’epoca, i partiti andavano cercando personaggi di peso – e Sollier lo era – da candidare. Ma lui, attivista della sinistra extraparlamentare che contestava quel Partito Comunista atlantista, perbenista, conservatore, storicamente compromesso con una Dc che quanto a moralità lasciava molto a desiderare, non ne volle assolutamente sapere di quel Pci. Per Paolo, come per altri suoi compagni di quel periodo – fra i quali lo storico leader del Sessantotto, Mario Capanna – la via al comunismo doveva essere percorsa diversamente.
Paolo, tuo padre Giovanni Battista è stato un partigiano. Cosa ebbe modo di raccontarti di quella sua esperienza?
“A mio padre non piaceva tanto parlare di quel periodo, che fu caratterizzato da tanti momenti brutti. Certamente lo inorgogliva l’essere stato, unitamente ai suoi compagni di lotta, un baluardo contro le forze tedesche. All’inizio non sapevano come muoversi, poi decisero di organizzarsi in val di Susa e così presero parte alla guerra partigiana”.
Quale insegnamento ti ha lasciato tuo padre?
“Non nascondersi mai, prendere sempre posizione in ragione delle idee in cui si crede, mai dire bugie anche se ciò dovesse rappresentare un sacrificio”,
In te si è affermato prima l’ideale politico o la passione calcistica?
“La passione calcistica è arrivata prima visto che si cominciava a giocare fin da giovanissimi, all’età di 12 anni. Io cominciai a giocare nel Vanchiglia squadra di calcio del mio borgo”.
Perché hai sposato la causa comunista?
“È una domanda che merita una risposta articolata. Il mio percorso è cominciato in oratorio, chiesa di San Giulio d’Orta, nel mio quartiere. Di lì ebbi le prime esperienze con i cattolici del dissenso di Mani Tese ed Emmaus. In quel contesto, dove fondamentale era l’aiuto ai poveri, non si faceva caso se i giovani che prestavano la loro opera fossero di Sinistra o di Destra perché, insieme, ci davamo da fare per raccogliere stracci ed altro materiale di scarto che rivendevamo per donarne il ricavato ai poveri. È stata una esperienza importante, in quanto mi ha dato una un’apertura mentale che mi è servita molto. Ad un certo punto cominciai a non avvertire la fede religiosa. Mi iscrissi a Scienze e Politiche che in seguito abbandonai per andare a lavorare, in qualità di operaio, alla Fiat di Mirafiori. Avvertivo forte l’impegno sociale attraverso la politica”.
Avanguardia Operaia, Lotta Continua, Potere Operaio…Perché scegliesti Avanguardia Operaia?
“A Torino, quando mi iscrissi all’università, fra i vari gruppi, essendo attiva Avanguardia Operaia, vi aderii immediatamente. Personalmente ho sempre criticato quelle divisioni nell’ambito della Sinistra extraparlamentare anche perché non c’erano grandi differenze. Ed allora – mi chiedevo – visto che bisognava fare qualcosa, bisognava dare una mano ai più deboli, perché non portare avanti un’azione unitaria per conseguire degli obiettivi pur se difficili da raggiungere? Era assurdo vedere nell’università o in altri luoghi, i citati movimenti extraparlamentari svolgere divisi un volantinaggio, su di un determinato tema che, invece, li accomunava”,
Prima di approdare sul grande palcoscenico della A, durante le esperienze calcistiche nelle serie minori, c’è stata una persona che per te è stata importante?
“Sicuramente Matteo Dalla Riva, mio primo allenatore al Vanchiglia. Ci dava lezioni di apertura mentale in quanto, oltre ad allenare e motivare, insegnava a metterci in gioco per stare bene al mondo. E quello stare bene al mondo significava che il calcio era un gioco e non una guerra; significava lealtà e rispetto per compagni di squadra ed avversari; significava sacrificio ed aiuto reciproco. Dalla Riva ci insegnò quali erano le cose giuste e quali quelle sbagliate”.
Quando cominciasti fare il saluto comunista a pugno chiuso militavi nelle serie calcistiche minori. Perché adottasti quel saluto ed in quale momento lo facevi?
“Inizialmente fu un cenno d’intesa con i miei compagni di università che venivano allo stadio. Decisi di farlo perché non volevo nascondermi, non volevo fare un passo indietro e, pertanto, volevo manifestare la mia idea. Salutavo a pugno chiuso prima che la partita avesse inizio, quando le squadre erano schierate a centrocampo per salutare il pubblico. Io salutavo amici e tifosi con il pugno chiuso”.
Come avvenne, nel 1974, il trasferimento dalla Pro Vercelli, squadra di Serie C, al Perugia in Serie B?
“Ilario Castagner, prima che diventasse allenatore era un osservatore che girava i vari campi di calcio segnalando alle varie società i giocatori meritevoli di attenzione. Fu così, che divenuto allenatore del Perugia, mi volle con sé in quella squadra”.
D’Attoma, presidente del Perugia, Ramaccioni direttore sportivo, Ilario Castagner, allenatore: fra i tre, chi era il più estremista di centro?
“Erano uguali fra loro. Con i primi due noi giocatori non avevamo un rapporto continuo, cosa che, invece, accadeva con Castagner, giovane allenatore con il quale ci si confrontava apertamente. I dirigenti, non dico che fossero nemici… ma, alle volte, potevano apparire come tali specie quando si doveva discutere di contratto, di rinnovo di contratto”.
La prima annata in B, con il Perugia 1974-75, andò ottimamente con la promozione in A. Come venne costruito quel successo del quale fosti protagonista?
“Fu merito di Castagner. Fu lui a volere i giocatori che aveva già notato quando era osservatore. Il Perugia non era dato favorito per la A. Dico di più: i giornali locali, nel prenderci un po’ in giro, ci davano per spacciati e retrocessi in C”.
Come veniste ricompensati per quella promozione?
“Niente, anche se quella promozione fu una cosa fuori dal normale”
Il campionato 1975-76 vide il tuo esordio in A sempre con il Perugia. Cosa ricordi, ancora oggi, di quel torneo?
“Ricordo che facemmo un buon campionato conservando la permanenza in Serie A”.
Torniamo al saluto comunista che facevi a pugno chiuso quando entravi in campo. Come reagirono la dirigenza del Perugia, i tuoi compagni di squadra, le istituzioni calcistiche?
“Era una polemica continua in quanto venivo attaccato sia dalla dirigenza, che dai miei compagni.
La dirigenza mi diceva:
‘Ci crei problemi’.
I compagni di squadra mi attaccavano negli spogliatoi:
‘La devi smettere di romperci le palle con quel saluto’.
Naturalmente non potevo accettare quelle critiche in quanto, militando nella sinistra extraparlamentare, mi sentivo obbligato ad essere me stesso, nel senso che il mio credo politico non poteva valere solo al di fuori dei campi di calcio, ma anche all’interno”.
I tuoi compagni di squadra parlavano di politica?
“Non tutti parlavano di politica. Io ne parlavo con Giancarlo Raffaeli, militante del Pci”.
Visto che hai citato il Pci, ne parliamo. Perché da comunista scegliesti la estrema Sinistra extraparlamentare e non il Pci? Cosa contestavate a Berlinguer che, proprio in quel in quel periodo, esattamente nel 1976, sugellava l’alleanza di compromesso storico con la Dc di Moro?
“Ma il Pci era già all’epoca un partito ufficializzato, le cui scelte non ci piacevano. Era quasi schierato dalla parte del capitale, cosa confermatasi successivamente quando è divenuto un partito di centro. Tutto ciò, essendo oggi ben visibile, conferma che non sbagliavamo ad essere critici nei confronti del Pci”.
Se nella tua squadra o in una avversaria ci fosse stato un tuo collega che si definiva camerata e fascista, ostentando in campo il saluto romano, come avresti reagito?
“Gli avrei detto che la pensavo in modo contrario, ma lo avrei rispettato. Non ho mai avuto paura di chi la pensava diversamente da me”.
Perché vari esponenti sessantottini, noti e meno noti, da contestatori e comunisti incalliti, sono in seguito divenuti ultraliberisti incalliti?
“Comportamenti difficili da spiegare. Credo che la coerenza non sia nel Dna di tutti. Io comunque rispetto le opinioni altrui”.
Paolo, come si usa dire, all’amor non si comanda oppure l’amore è l’amore: hai mai avuto un’amorosa di Destra o fascista?
“Ebbi una storia con una donna di Destra che viveva a Roma, anche se poi ho fatto autocritica”.
Nel senso che hai rinnegato quella relazione?
“Nel senso che, se da un lato mi dicevo:
Siamo diversi, la pensiamo diversamente…
dall’altro mi chiedevo: Se stiamo insieme, allora vuol dire che c’è qualcosa che ci unisce.
Erano comunque amori rapidi”.
Perché nel 1976, a chiusura della seconda annata con il Perugia confermatosi in A, venisti ceduto al Rimini in B?
“Venni ceduto al Rimini l’ultimo giorno del calcio mercato in cambio di Cinquetti, che Castagner volle al Perugia. Inizialmente rimasi ferito per quanto accaduto, ma poi tutto passò grazie alla mia apertura mentale che mi consentì di andare avanti”.
Percepisti che il tuo era un addio alla A?
“Sono stato sempre un tipo razionale. Visto che non mi reputavo un grande giocatore, per me era stata già una fortuna giocare in A. I due anni trascorsi a Perugia, alla grande, mi resero entusiasta visto che, con notevole impegno, passammo dalla B alla A disputando degli ottimi campionati. Essendo realista mi dispiacque scendere in B ma, alla fine, reputandomi scarso per la A, ero contento della esperienza che avevo fatto”.
Perché la estrema Sinistra a partire dal 1976, anno in cui entrò in Parlamento con il Partito di Unità Proletaria per il Comunismo-Democrazia Proletaria (Pdup-Dp), non riuscì ad erodere consensi al Pci?
“Beh, c’è da dire che il Pci è stato sempre un partito organizzato, diffuso sul territorio, con una sua storia che io ho sempre rispettato. Ciò non fece venir meno, da parte nostra che militavamo nella Sinistra extraparlamentare, le critiche che muovevamo al Pci per le sue scelte. Di certo ci furono delle nostre responsabilità se non riuscimmo a realizzare ciò che avevamo in mente e, quindi, a sfondare in termini di consenso. I nostri progetti partivano dal basso per raggiungere ed estendersi a quelle aree vaste che vivevano un profondo disagio sociale in termini di povertà, mancanza di lavoro, tutela dei diritti. Eravamo convinti di farcela ma, alla fine, le cose non andarono come da noi auspicato”.
Nel dicembre 1976 pubblicasti un libro dal titolo alquanto significativo e spumeggiante: «calci sputi e colpi di testa» edito da Gammalibri. Perché ed in quanto tempo scrivesti il libro?
“Io conservavo un diario nel quale annotavo ciò che mi aveva colpito pertanto, il libro era già fatto. La Gammalibri mi propose di scrivere un libro da accademico del calcio, da studioso, ma io dissi di no in quanto non avevo i titoli per fare il professore. Pertanto proposi un libro che parlasse della mia storia quotidiana fra calcio, militanza politica e vicende personali. La Gammalibri accettò”.
Poiché all’epoca fece clamore, il libro è ancora oggi disponibile su vari siti. Chi apprezzò e chi, invece, stigmatizzò il tuo scritto sottotitolato «riflessioni autobiografiche di un calciatore per caso»?
“Il libro venne apprezzato da più parti, dai gruppi di sinistra, ma anche da tanta gente di destra. Proprio questi ultimi mi dissero: ‘Anche se non la pensiamo come te, abbiamo apprezzato e siamo contenti del tuo libro’. Presi una multa dagli organi federali calcistici perché criticai la situazione in cui versava il calcio”.
Era un’epoca in cui certi libri facevano presa. Ricordo, ad esempio, un «Dino Zoff racconta…» di Alberto Refrigeri, edito dalla Juventus F.C., uscito qualche anno prima del tuo.
“Si, ma quello che hai citato, come altri, era un libro-intervista mentre, il mio, era scritto in forma diaristica”.
Veniamo al Rimini, dove rimanesti per tre anni mentre l’Italia veniva attraversata dalla seconda Contestazione, quella del 1977, che sicuramente fu più dura e più violenta rispetto a quella del ’68 con lo stesso Pci osteggiato perfino nelle Università dalla estrema sinistra. Come vivesti nella rossa Rimini quel periodo politicamente e calcisticamente?
“Politicamente continuai a fare quanto avevo fatto a Perugia. Con i miei compagni di lotta si faceva il possibile per aiutare i più deboli. Mi trovai bene, tra l’altro proprio in un momento in cui nascevano le prime radio libere. Ci adeguammo alla situazione e, proprio a Rimini, demmo vita a Radio Rosa Giovanna, emittente di estrema sinistra. Calcisticamente ce la dovemmo vedere, noi calciatori, con due allenatori: uno, Helenio Herrera, un grande; l’altro, Osvaldo Bagnoli, che lo sarebbe diventato. Herrera, un grandissimo personaggio accompagnato da una fama che metteva un pochino soggezione. Non mi trovai comunque male con lui. Stessa cosa posso dire di Osvaldo Bagnoli con il quale mi sono trovato bene”.
Anni di piombo, un indimenticabile periodo di orrore e di terrore funestato da un elevatissimo numero di vittime falciate dallo stragismo, dal terrorismo, dalla violenza: tutori dell’ordine e della legge, politici, giornalisti, sindacalisti e tanti, tanti, giovani di Sinistra e di Destra. Visto che, all’epoca oltre che ad essere calciatore, eri attivo nella Sinistra extraparlamentare di Avanguardia Operaia, quale la tua riflessione sui tanti caduti di sinistra e di destra, per lo più giovani?
“Ero dispiaciuto per quanto avveniva. Ed ero dispiaciuto sia quando moriva un giovane di sinistra, sia quando moriva un giovane di destra. Trovavo esagerato, inaccettabile e fuori da ogni logica che si arrivasse a sparare e ad uccidere per l’affermazione di una idea. Io che sono sempre stato per il confronto anche aspro in ambito politico, ho sempre avversato il terrorismo ed ogni forma di violenza”.
Ricordiamo un dramma che il 30 ottobre 1977 colpì il Perugia ed i suoi tifosi. Eri a Rimini quando ti raggiunse la drammatica notizia della morte del ventiquattrenne centrocampista perugino, Renato Curi, morto sul campo di calcio, per arresto cardiaco, durante la partita Perugia–Juventus disputatasi sotto una pioggia battente. Poiché lo avesti come compagno di squadra, che ricordo hai di Renato Curi?
“Un mio compagno di squadra con il quale andavo d’accordo. Con lui si rideva molto. Non ho avuto alcun problema con lui perché i nostri rapporti furono molto chiari ed aperti. Era molto più bravo e molto più forte di me. Quando seppi la notizia della morte stetti molto male”.
Nel calcio chi è stato l’avversario che hai ammirato di più?
“Tardelli, un giocatore con il quale era difficile giocare. Era molto forte fisicamente e tecnicamente”.
In campo politico avevi nemici o avversari? Voglio essere più esplicito: Giorgio Almirante, capo indiscusso della destra nazionale, un personaggio duramente avversato dal Pci e dalla Sinistra extraparlamentare, che nel tuo libro definisti «Duce delle parole, imperatore della frase fatta», per te era un avversario o un nemico?
“Avversario sì, nemico no. Io ho sempre rispettato chi non la pensava come me. Mi davano fastidio gli opportunisti, chi faceva politica per procurarsi dei vantaggi, non sopportavo chi si vendeva”.
Dopo Rimini, ritornasti alla Pro Vercelli dove rimanesti per due stagioni. Nel 1980 esplose il primo calcio scommesse? Te l’aspettavi?
“Rimasi sorpreso. Che delusione. Noi calciatori avemmo una grande delusione”.
A metà degli anni Ottanta il terrorismo venne meno e, così, anche quella drammatica stagione che ancora oggi segna l’Italia. Riguardo la fine del terrorismo, fu una vittoria dello Stato, oppure si trattò di un armistizio sottoscritto per il tramite della legge sui pentiti, fra le forze dell’arco costituzionale Dc, Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli ed i terroristi che, ringraziando Iddio, non credendo nei loro folli progetti, rinunciarono alla lotta armata?
“Io, che ho sempre combattuto quello Stato, non ho mai approvato il terrorismo perché, se si prende un’arma vuol dire che si vuole ammazzare qualcuno e ciò è contro ogni logica. Alla fine i terroristi furono presi dalla rassegnazione, dalla paura, dall’incertezza. Vogliamo chiamarlo armistizio…l’importante che tutto sia finito ed è stato giusto che alla fine abbia vinto lo Stato”.
Dopo le esperienze con Biellese e Cossatese dove concludesti nel 1985 l’attività agonistica, ti attendeva un ventennio da allenatore. Qual è stato il maggior successo conseguito da allenatore?
“Cominciai con entusiasmo ma non andò bene, perché non riuscii a trasferire ai giocatori le buone intenzioni che avevo. Se da allenatore si continua ad avere la mentalità da calciatore non si va da nessuna parte”.
Nel frattempo non è venuta meno la tua passione per lo scrivere visto che, con Paolo La Bua, per la Kaos edizioni, nel 2008 pubblicasti il libro «Spogliatoio». Non a caso, a partire dal 2005, tu calciatore-scrittore hai allenato la Osvaldo Soriano Football Club (OSFC), nazionale di calcio degli scrittori italiani.
“Fu una bella esperienza perché fu interessante osservare molta bella gente dedita alla cultura cimentarsi con il calcio anche se, con il calcio, non aveva tanta dimestichezza”.
Oggi chi è Paolo Sollier?
“Io continuo ad avere le mie idee, quelle di sempre e sono sempre disponibile a delle iniziative, ma intorno non c’è proprio nulla. Non mi riconosco in nessun partito anche se, ad un certo momento, avevo sperato nei 5 Stelle ma, ormai, anche loro sono malmessi. Io sono un naufrago in questa politica”.
Non ti convince neanche il Partito comunista guidato da Marco Rizzo?
“Li conosco, li seguo ma che seguito hanno? Mi rendo conto che è arduo cambiare la società capitalista odierna”.
Se ti trovassi oggi nel posto e nel momento per te giusti, rifaresti il saluto a pugno chiuso cantando anche “Avanti popolo alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa…”?
“Sì è chiaro che lo rifarei. Ma intanto c’è da chiedersi perché con il saluto a pugno chiuso e con l’Avanti popolo alla riscossa… non si è stati capaci di gestire tutti i passaggi necessari per combattere e cambiare la società capitalista? Oggi viviamo l’era del turbo capitalismo e lo Stato non fa nulla, nulla si fa pe invertire tale assetto che aumenta le diseguaglianze, aumenta il numero dei poveri, aumenta i senza lavoro, aggrava la situazione di coloro che erano già indietro. È questa una riflessione che la società turbo capitalista dovrebbe fare”.
Tu pensi che la società turbo capitalista che si basa anche sullo spread, sulle speculazioni finanziarie ed altro, voglia fare la riflessione di cui parli?
“Beh, certo che no. Però io sono sempre disponibile a combattere per migliorare le cose, ma in giro non vedo nulla, cioè non vedo chi voglia cambiare le cose”.
Differenze dal punto di vista tecnico fra il calcio di ieri, che ti vide protagonista, e quello di oggi.
“Il calcio ha sempre attirato e continua ad attirare. Quello di ieri era più tecnico e più apprezzato perché, appunto, era pieno di gesti tecnici. Oggi, essendoci una maggiore velocità, la tecnica viene meno tant’è che si vedono pochi gesti tecnici. Inoltre, il sistematico raddoppio delle marcature ha rinforzato la difesa a scapito dell’attacco e, di conseguenza, della tecnica”.
Col cavolo. Saluti col pugno chiuso in una cellula comunista, in campo devi rispettare compagni ed avversari, non fare propaganda!
Calcisticamente non è mai stato nessuno. Manco vale la pena ricordarlo.
Figura marginale,da bocciofila comunque lo si voglia incastonarlo con la fantasia spicciola.Cosa dire per esempio di Giorgione Chinaglia..figlio di Italiani,cresciuto ai margini delle miniere di carbone del Galles tenacemente fattosi strada poi in Italia, Internapoli Lazio e nazionale poi
Per finire nientemeno negli usa.Sempre da protagonista…