Non chiedetemi, per favore, di parlar male di Letizia Moratti. Quello che lei e la sua famiglia hanno fatto a favore di Muccioli e della sua comunità, forse l’unica in Italia dove si redimessero davvero i drogati, basta e avanza a vaccinarmi dalla tentazione della maldicenza. In più nei suoi confronti ho un debito morale, per una nomina importante che ne ricevetti, anche se non andò a buon fine, non per colpa sua ma per l’indifferenza del centrodestra nei confronti delle problematiche del pubblico impiego e per il cinismo con cui il centrosinistra applicò – violando la Costituzione – i criteri dello spoil system.
Ciò nonostante, c’è qualcosa nella sua ultima scelta che mi lascia perplesso. Non perché la Moratti avrebbe dovuto essere eternamente grata al centrodestra per gli incarichi ricevuti: presidente della Rai (quando i presidenti Rai contavano più di oggi), ministro dell’Istruzione, sindaco di Milano, quando ancora nel capoluogo lombardo esisteva una netta prevalenza del centrodestra, e poi assessore e vicepresidente della Regione Lombardia, incarico da cui si è dimessa nel tentativo di correre alle prossime regionali con un partito estraneo e ostile alla coalizione di centrodestra.
Per censo e per capacità, la Moratti non aveva e non ha bisogno della politica per vivere. E credo che in vari ruoli svolti abbia dato più di quanto non abbia ricevuto, non solo in termini economici.
Quello che mi è duro comprendere è altro: come ha fatto non a lasciare il centrodestra, ma a mettersi con un partito che è stato prossimo a schierarsi con il Pd e che in Lombardia sarà parte attiva nella scalata al Pirellone? Quello che le rimprovero non è l’ingratitudine verso gli amici, ma l’indulgenza verso i nemici.
Il fatto è che nei primi anni Duemila, quando lei era ministro dell’Istruzione, mi trovai a dover rintuzzare in molte assemblee scolastiche le puntate d’odio che trasudavano dalle critiche, spesso pretestuose, alla riforma che stava cercando di varare, a constatare l’odio profondo che alitava nei suoi confronti in regioni “rosse” come la Toscana, e poi ad assistere ai cortei in cui insegnanti, genitori, scolaresche sfilavano al grido di “Moratti, Moratti, vai a lavare i piatti”, sobillati e in certo casi guidati da qualche dirigente scolastica che non avrebbe mai accettato critiche nella gestione del suo istituto. E capii che quello nei suoi confronti era un odio non solo politico, ma sociale, antropologico, in definitiva classista, perché alla ministra Moratti non era perdonato quello che il popolo della sinistra perdona senza tanti problemi a chi si schiera dalla sua parte, attori, scrittori, palazzinari, oggi influencer: il fatto di essere ricca, distinta, elegante, di essere di buona famiglia e di aver fatto un bel matrimonio. Prova ne sia che nei confronti della ministra Gelmini, che durante la sua permanenza al Miur fece più danni della grandine e rese assai più oneroso il lavoro dei docenti, le proteste non arrivarono mai allo stesso livello.
Letizia Moratti farebbe bene a ricordarlo, finché è in tempo. E a ricordare da chi provenivano i fischi e le offese nei suoi confronti il 25 aprile 2006, quando avrebbe voluto partecipare, candidata sindaco, al corteo della Liberazione, accompagnando il padre invalido in carrozzella, a suo tempo deportato nei campi di concentramento tedeschi, e dovette abbandonare a metà strada il percorso.
Per questo, ferma restante la mia gratitudine nei suoi confronti, invito Letizia Moratti a fare un passo indietro: non è detto che non si tratterebbe di un passo avanti.