“Assalto al cielo” è un ciclo di interviste sui prossimi scenari culturali al tempo del nuovo governo di centrodestra, a guida Giorgia Meloni. Partiamo dialogando con Marco Scatarzi, editore controcorrente di Passaggio al Bosco, e animatore di un originale e partecipato percorso comunitario tra milizia e visioni ideali
Marco Scatarzi, editore di Passaggio al Bosco, la vittoria del centrodestra alle politiche come cambia lo scenario di opposizione al Pensiero unico?
“Sui macro-scenari, evidentemente, non vi saranno stravolgimenti strutturali: le tendenze globali sono ampiamente avviate e sarà difficile scardinarle in qualche anno. Tuttavia, potrebbero essere innescate delle progettualità interessanti, capaci di produrre quella fondamentale opera di semina che il centrodestra – nell’epoca del berlusconismo – non ha mai compiutamente edificato. Oggi scontiamo l’affermazione di un pensiero unico che è certamente avallato dalle centrali mondialiste, ma che trova delle innegabili e convinte adesioni anche più in basso: quest’ultimo aspetto, necessariamente, è la diretta conseguenza dell’assenza congenita di un tessuto organico alternativo e identitario che abbia gli strumenti per condurre una sana “guerriglia culturale” alla corazzata del “politicamente corretto”. La maggioranza – o almeno chi opera intelligentemente e strategicamente al suo interno – ha il dovere di gettare le fondamenta dei prossimi vent’anni, che saranno determinanti per la sopravvivenza di un circuito culturale alieno all’omologazione sradicante della “società aperta”. In poche parole: il centro-destra deve porsi il problema, dopo aver conquistato il governo, di andare anche al potere”.
Cosa si attende sul piano più squisitamente politico da un esecutivo finalmente eletto dal popolo?
“Credo sia necessario – anzitutto – fugare due atteggiamenti: il primo è quello dei catastrofisti da bar, impolitico per natura e aprioristicamente critico per cecità oggettiva, che non si sforza mai di immaginare nulla di positivo, anteponendo il rifiuto preventivo a qualsivoglia forma di proposta o di osservazione; il secondo è quello degli ingenui, che concepiscono le fasi democratiche di governo – qualunque esse siano – come delle straordinarie occasioni rivoluzionarie che muteranno il corso della storia. Più concretamente – bilanciando le logiche in campo e le ovvie imprevedibilità che si affacceranno sul percorso in atto – ritengo che sia lecito aspettarsi una riduzione del fenomeno migratorio; un contrasto alle degenerazioni “gender fluid” e alle più radicali estensioni della cosiddetta “Ideologia del Medesimo”, anche e sopratutto in termini di educazione e istruzione, ma anche di retorica mediatica e di elargizione della cittadinanza; un incentivo anche simbolico alla natalità, che però dovrà armonizzare l’inclinazione culturale alle necessità economiche reali della Nazione, trovando – e questa sarà una grande sfida – una strada che sia alternativa al parassitismo di pentastellata memoria, ma anche al liberismo selvaggio del mercato lasciato a se stesso; l’apertura di un serio dibattito sulla sovranità energetica, ma anche sul ruolo della Magistratura e sugli assetti istituzionali; un approccio differente sul tema delle restrizioni e dei vaccini, ma anche dei fantomatici reati d’opinione di stampo orwelliano”.
Chi le farebbe piacere avesse una chance al Ministero della Cultura?
“Più che di nomi, però, è una questione di approccio. Se l’esecutivo sarà politico, si renderà necessaria una visione a lungo termine, che non potrà prescindere da una seria azione culturale. Sia a destra che a sinistra, pur tra mille cortocircuiti, si è sempre avuta una precisa idea della tanto abusata “egemonia gramsciana”. Ma con una differenza sostanziale: la destra si è limitata a parlarne, mentre la sinistra ha cercato – anche fanaticamente, ma talvolta con successo – di renderla effettiva. È il caso di cambiare passo”.
C’è il rischio di un cortocircuito tra mondo culturale e politica, sul modello del dissenso che si sviluppò “a destra” nella fase post 1994?
“Quel rischio c’è sempre. Ed è lecito che ci sia: attesta la vivacità di un mondo che esprime delle idee e che su quelle idee si confronta. Ciò che conta – però – è che chi fa cultura abbia una capacità pragmatica che affianchi quella intellettuale, mentre chi governa – viceversa – abbia la sensibilità di armonizzare le visioni più alte con la quotidiana realpolitik. In entrambi i campi, troppo spesso, abbondano gli squilibri…”.
Il mondo progressista insiste sulla dicotomia fascismo-antifascismo e su mozioni strumentali nelle assemblee legislative. Non basta una sincera adesione all’antitotalitarismo per chiudere i conti con queste speculazioni?
“Al netto delle considerazioni che si possano avere sui totalitarismi – ai quali non appartiene, peraltro, l’esperienza del Fascismo italiano – ritengo deprimente la riduzione dell’attività istituzionale ad un retorica e strumentale bagarre sulle forme politiche del Novecento. È un vizio di certa sinistra, il cui principale difetto è la sostituzione del reale con una nauseante bolla emotiva fatta di litanie alle quali non credono più neanche loro. La gente deve arrivare alla fine del mese e attende risposte concrete sulle emergenze di oggi, non sul ruolo storico della resistenza, sui ritratti di Mussolini al Mise o sui crimini della Russia stalinista”.
L’area non conformista si caratterizza per essere composta da “intellettuali disorganici”. A chi si sente più vicino, con chi ha rilevato maggiore assonanza negli ultimi complessi frangenti del nostro tempo?
“La definizione di “area non conformista” è molto vaga, anche se può essere utilizzata per bucare lo schermo e proporre una qualche alternativa al meccanismo dominante. Va anche detto – al netto di qualche deriva edonistica, che tende naturalmente all’isolamento – che non esiste neppure una progettualità di ampio respiro alla quale aggregarsi. La “disorganicità”, dunque, è anche una diretta conseguenza dell’assenza di organismi. Al sottoscritto interessa collaborare, però, con chiunque condivida una visione del mondo: ritengo piuttosto sterile la figura dell’intellettuale in sé, soprattutto se scollegata da un contesto comunitario vissuto e operativo; al contrario, riscontro la presenza di tante realtà splendide, in ogni angolo d’Europa, con le quali ho intrapreso da tempo un percorso di condivisione e di interscambio. Su tutte, i francesi dell’Institut Iliade, che rappresentano indubbiamente un’avanguardia di ottimo livello e di grande spessore”.
Le prossime pubblicazioni della sua casa editrice?
“Sono tante. Stiamo mantenendo un ritmo di marcia molto serrato: un libro a settimana, con i 120 titoli superati in questi giorni. Tra le prossime uscite: due proposte storiche che analizzeranno il “biennio rosso” e gli “anni incendiari”; un bel contributo dell’Istituto Stato e Partecipazione, firmato da Francesco Marrara; una bella biografia di Mishima; un magnifico ritratto di Nietzsche vergato dall’ottimo Luca Leonello Rimbotti; due capolavori provenienti da oltralpe, sui temi della famiglia e della potenza europea; l’apertura di una collana biografica mutuata dallo storico editore francese Pardes; alcuni romanzi identitari e – cosa che ritengo importante, anche ai fini della battaglia culturale che abbiamo il dovere di intraprendere – il lancio di una collana dedicata ai bambini, con testi illustrati che tratteranno i Miti tradizionali della nostra Civiltà. E molto, molto altro ancora…”.