Domenico Penzo, Nico, nato a Chioggia nel 1953, è stato un bomber degli anni Settanta-Ottanta che ha calcato i palcoscenici calcistici italiani ed internazionali conseguendo risultati a dir poco lusinghieri.
Nico, come avvenne il tuo trasferimento, a poco più di vent’anni, alla Roma?
“Ero di proprietà del Varese, squadra giovanile. Nell’anno in cui dovevo prestare il servizio militare, causa un disguido, anziché a Roma, venni destinato a Firenze, in una caserma punitiva. La fortuna volle che tale caserma forniva prestiti militari di calciatori alla Romulea. Realizzai diversi goal con la Romulea ed avvenne il grande balzo in A. Ero in procinto di fare un provino con la Sampdoria, ma ciò non accadde in quanto, grazie agli ottimi rapporti fra il presidente della Romulea, Giuseppe Vilella, e la Roma, finii in A, con i giallorossi, nella stagione 1974-75”.
Ci racconti l’unico goal in A, con la Roma allenata da Nils Liedholm?
“Lo realizzai a Roma, contro la Fiorentina, la cui porta era difesa da Franco Superchi. Vi fu un cross sul quale mi avventai tirando subito in porta, Superchi deviò la palla sul palo ma, sulla respinta del legno, fui rapido a depositare la palla in rete. Un’emozione incredibile, indescrivibile. Un palo preso a Varese mi impedì di gioire. Infatti, mi avrebbe fatto piacere segnare ed esultare in quella circostanza, perché quello era il Varese di personaggi che mi avevano trattato con una certa supponenza nel periodo in cui avevo fatto parte delle giovanili. Un altro goal lo realizzai sempre all’Olimpico di Roma, in un’amichevole contro l’URSS di Oleg Blochin, fuoriclasse della Dinamo di Kiev; la partita terminò 1-1”.
Hai altri ricordi di quel periodo iniziale in A?
“In un Napoli-Roma feci involontariamente un tunnel al grande Tarcisio Burgnich, difensore del Napoli con un grande passato nella Nazionale azzurra, un personaggio straordinario, come uomo e come calciatore. Burgnich si avvicinò perentoriamente dicendomi: ‘Certe cose non si fanno!’. All’epoca, noi pivellini, mai ci saremmo sognati di fare un tunnel a dei giocatori della portata di Burgnich”.
Perché rimanesti solo un anno a Roma?
“Rimasi solo un anno perché, quella Roma allenata da Liedholm, era molto forte. Parliamo della Roma dei Negrisolo, degli Spadoni, dei Prati, per cui era difficile trovare un posto in prima squadra. Inoltre, non ero ancora maturo per la A. Al termine del campionato la Roma si classificò al terzo posto”.
Infatti disputò la Coppa Uefa 1975-76 venendo eliminata agli ottavi dai belgi del Bruges, in seguito sconfitti dal Liverpool nella doppia sfida finale di andata e ritorno. Non trovando spazio nella Roma cosa accadde?
“Venni ceduto in Serie B, al Piacenza allenato da Giovan Battista Fabbri, Campionato 1975-76”.
Che tipo era Fabbri?
“Un personaggio particolare, straordinario, dalla mentalità aperta. Ad esempio, riguardo l’alimentazione dei calciatori, aveva una sua filosofia permissiva, del tutto opposta ai rigidi canoni dell’epoca. A Piacenza non trovai la giusta collocazione negli schemi di Fabbri e così, poco dopo l’inizio del torneo, venni ceduto in C, al Benevento allenato da Pietro Santin. In quella stagione giunse a Benevento anche Carlo Sartori”.
Sartori, centrocampista dai capelli rossi, ex Manchester United. Sembrava che il Benevento dovesse conquistare la B, invece cosa accadde?
“La squadra lottò per la promozione in B con il Lecce, che riuscì a spuntarla sul finire del torneo”.
Nella terzultima di campionato, proprio il Bari, il 23 maggio 1976, sconfiggendo in casa per 3-0 il Benevento, consentì al Lecce di effettuare il sorpasso definitivo sui sanniti.
“Non disputai quella partita a Bari perché infortunato. Ci fu il sorpasso del Lecce, ma credo fu determinante quanto avvenuto la settimana prima in Benevento-Messina terminata 0-0, con un rigore da noi sbagliato”.
Archiviata l’esperienza con il Benevento, nel Campionato di Serie C 1976-77 indossasti la maglia biancorossa del Bari. Come avvenne il trasferimento?
“Fu l’allenatore, Giacomo Losi, a volermi nel Bari”.
Ci descrivi Losi?
“Un padre di famiglia, una persona pacata, serena, che riusciva a capire l’uomo ed il giocatore”.
Che impatto avesti con la città di Bari?
“Impatto positivo, straordinario il calore della tifoseria. Il sud è stato per me un’esperienza di vita”.
E l’inserimento in squadra?
“Nessun problema. Con Scarrone, Sigarini, con gli altri compagni di squadra, non vi fu alcun problema, gruppo solido”.
Quel campionato che il Bari si aggiudicò venendo promosso in B, vide la Paganese principale antagonista dei biancorossi. All’andata, al della Vittoria, il Bari si affermò con una punizione in area paganese realizzata da Sciannimanico (goal porta curva sud); dopo fu assedio totale della Paganese. I campani oltre ad aggiudicarsi con lo stesso risultato la gara di ritorno, eliminarono i biancorossi dalla Coppa Italia. Di negativo per il Bari, i quattro punti conquistati dall’Alcamo, squadra siciliana invischiata nella lotta per non retrocedere.
“Ricordo bene le sfide contro l’Alcamo. Perdemmo all’andata in casa 1-0 e 2-1 ad Alcamo. Ad Alcamo fu un’autentica battaglia, su un terreno che tutto era, fuorché un campo di calcio”.
Con 16 reti divenisti capocannoniere. Quale fu il goal più bello realizzato in quell’annata?
“Lo realizzai a Torre del Greco, contro la Turris, dove vincemmo per 2-0. Fu un’azione di contropiede. Ricevetti palla da Sigarini e, producendomi in uno scatto la passai a Scarrone che, a sua volta me la restituì; giunsi in area e, visto il portiere campano che mi veniva incontro, mi fermai per batterlo con un pallonetto: Fu il goal del 2-0”.
Stagione 1977-78: sempre con Losi alla guida, il Bari si accingeva a disputare la B. L’estate del 1977 venne però funestata dalla scomparsa del presidente De Palo; dolore e scoramento fra i tifosi. Il Bari venne rilevato dalla famiglia Matarrese con Antonio, deputato democristiano, neo presidente. Notasti delle differenze fra le due presidenze?
“De Palo amò il Bari con tanta passione. Anche Matarese amò il Bari, ma non credo con la stessa dedizione del presidente De Palo”.
Veniamo ad un fatto che ti vide protagonista alla VII giornata di andata. Bari-Cremonese del 23 ottobre 1977 sbloccata poco prima del 90°, da Pauselli, con un goal di testa vincente (porta della curva nord) che regalò ai biancorossi il terzo posto in classifica. Poco prima del goal, tu ed il tuo omologo della Cremonese, De Giorgis, veniste espulsi. Mentre tu raggiungesti velocemente gli spogliatoi, De Giorgis esitò e, a ridosso delle scale che conducevano appunto ai medesimi (accesso alle spalle porta curva sud), dette l’impressione di non volervisi accomodare. Interpretazioni di alcuni tifosi: “De Giorgis ha paura di Penzo che lo attende negli spogliatoi per picchiarlo”. Come andarono i fatti?
“Non era mia intenzione picchiare De Giorgis. In vita mia non ho mai picchiato nessuno e sono stato espulso solo una volta; una seconda avvenne quando giocavo nel Verona durante una partita di Coppa Italia ma, in quel caso, vi fu uno scambio di giocatore in quanto non dovevo essere io l’espulso”.
Quindi, la tua unica espulsione risale in quel Bari-Cremonese?
“Sì. Ma venni espulso perché intervenni in difesa di Sigarini, che venne sputato da un avversario. Ora, si può accettare la scorrettezza, il fallo, la protesta, ma sputare ad una persona è una cosa che non ho mai tollerato”.
Veniamo adesso ad un altro fatto clamoroso ed al tempo stesso increscioso, che mise in subbuglio la piazza biancorossa. Sono passati decenni da quel gennaio 1978 quando, a sorpresa, l’allenatore Giacomo Losi venne esonerato dopo la sconfitta per 2-1 subita dal Bari a Modena, il 15 gennaio 1978. Cosa accadde realmente?
“L’esonero fu inspiegabile. Bisognerebbe chiedere a Regalia, che con Losi non andava d’accordo, i motivi di quella decisione che portò Matarrese a scegliere il suo primo allenatore: Mario Santececca, vice di Losi, allenatore della Primavera del Bari. Santececca era un arrivista, proveniva dal settore giovanile della Lazio ed aveva poca esperienza sul campo. E dire che, in qualità di neo promossa, il Bari non aveva ambizioni di promozione, in classifica aveva 17 punti collezionati in diciotto partite. Inoltre si era rivelato ottimo l’acquisto di Pellegrini, visto il grande apporto che Stefano dette alla squadra. Probabilmente si voleva inaugurare un nuovo corso anticipandone i tempi, ma l’esonero di Losi degnissima persona, gran bella persona, causò non pochi squilibri a livello di spogliatoio”.
Losi lasciò il Bari a centroclassifica, stesso risultato conseguito da Santececca a fine torneo. Negli anni successivi, avesti modo di chiedere a Losi il perché di quell’esonero?
“Sì. Incontrai Losi anni dopo a Verona, dove era impegnata la Nazionale attori da lui allenata. Gli chiesi i motivi di quel suo esonero, mi rispose: ‘Non so che dire, non saprei cosa dirti’. Altro non aggiunse”.
Nel Campionato di B 1977-78, sempre con il Bari realizzasti 8 reti, ma ricordo che colpisti una infinità di legni, forse una quindicina fra pali e traverse. Quale fu il goal più bello realizzato in quell’annata?
“Ricordo il goal realizzato in casa, alla Sampdoria su punizione, in una a partita vinta 2-0 dal Bari”.
Goal realizzato nei primi minuti. A mio parere il più bello rimane il secondo goal che realizzasti sempre contro la Samp – nella partita che hai citato, ottobre 1977 – quando, da centrocampo, tutto solo, ti involasti verso la curva nord realizzando il 2-0, la doppietta. Un goal simile lo facesti…no, ne riparliamo fra un po’.
“Era quella una grande Sampdoria, squadra che annoverava gente del calibro di Saltutti, Lippi, Bedin, Orlandi, il portiere Cacciatori”.
Nel 1978 chiudesti la tua esperienza a Bari. Perché?
“Essendo di proprietà della Roma, la società giallorossa mi volle dirottare a Monza, sempre in B”.
Quali furono i momenti più belli e quelli meno belli trascorsi a Bari?
“A Bari ritornai ad essere un calciatore vero, che aveva ricominciato a giocare un calcio competitivo, cosa che mi permise di raggiungere dei traguardi che non mi sarei mai aspettato. Il ricordo più bello, sicuramente, la promozione in B, Campionato 1976-77, sotto la guida di Losi. Una promozione realizzata da un gruppo straordinario formato dai miei compagni di squadra. Il più brutto quando, dopo l’esonero di Losi, mio padre si ammalò gravemente. Fu un periodo travagliato durante il quale mi spostavo frequentemente da Bari a Milano per assistere mio padre, che morì a maggio del 1978”.
Il campionato 1978-79 lo disputasti in B, con il Monza.
“Venni ceduto in prestito dalla Roma al Monza. Ci sfuggì la A per un soffio. Essendo appaiate al terzo posto, Monza e Pescara disputarono uno spareggio a Bologna; venimmo sconfitti 2-0 dagli abruzzesi”.
Il Campionato di B 1979-80 lo disputasti a Brescia che venne promosso in A.
“Potevo rimanere a Monza che mi offrì una congrua offerta, ma avendo dato la parola a Simoni, allenatore del Brescia, lasciai i brianzoli per vestire la maglia delle Rondinelle. Gigi Simoni era un grande tecnico anche dal punto di vista umano. Il Brescia non partì bene ma, dopo enormi sacrifici, riuscimmo a raggiungere la A classificandoci al terzo posto”.
Il 23 dicembre 1979 tornasti per la prima volta da ex, a Bari, ed i biancorossi vi travolsero per 3-0. Venisti contestato dai tuoi ex tifosi? Te lo chiedo perché all’epoca era consuetudine fischiare gli ex…
“No, non ebbi contestazioni”.
Nel Campionato di Serie A 1979-80 venisti confermato al Brescia, ma con un nuovo allenatore, Alfredo Magni, proveniente dal Monza.
“Sì, ma visto l’ottimo rapporto che avevo costruito con Simoni diedi la mia disponibilità a seguirlo anche in B, a Genova, con il Genoa, ma non se ne fece nulla e, pertanto, restai a Brescia”.
Causa la classifica avulsa il Brescia retrocedette in B.
“Meglio lasciar perdere, preferisco non parlare di quella retrocessione del Brescia. Cose che accadevano allora, che accadono oggi…lasciamo perdere…”.
Nel Campionato di A 1981-82 approdasti al Verona allenato da Osvaldo Bagnoli.
“Bagnoli, una persona straordinaria che mi ha insegnato tanto come uomo e come calciatore. Quel Verona, che venne promosso in A classificandosi al primo posto, fu alla base, fu il punto di partenza che portò i gialloblu di Bagnoli a vincere lo Scudetto 1984-85”.
Veniamo alla tua seconda volta da ex a Bari, il 28 marzo 1982, in uno scontro importante per la A terminato 1-1. Il tuo Verona affrontava i biancorossi di Catuzzi che, grazie ai ragazzini baresi guidati in campo dagli esperti Majo, Jorio e Bresciani, stavano strabiliando l’Italia calcistica. Classifica a quel 28 marzo: Pisa, Verona, Varese, 33 punti, Palermo 31, Bari 30. Il Verona passò in vantaggio con un tuo goal simile a quello di cui hai fatto cenno con la Samp, nell’ottobre 1977: ti divorasti tutto il centrocampo realizzando il goal dell’ex nella porta della curva nord.
“Fui agevolato da un clamoroso liscio di Nicola Caricola che mi spianò la strada verso la rete. Nicola in quella circostanza peccò di ingenuità in quanto, anziché intervenire sull’uomo, cioè su di me, cercò di prender palla non riuscendovi. Mentre ero attorniato dai miei compagni esultanti, non mi sfuggì il dramma, la disperazione di Nicola che, preso da un pianto continuo, veniva consolato dai suoi compagni. Trovai il tempo anch’io per andare a rincuorarlo, ma continuava a piangere, era disperato”.
Caricola venne sostituito, ma il tuo fu un gesto che ti fa onore.
“Nicola era veramente un gran bravo ragazzo. Ebbi modo di apprezzarlo dal punto di vista umano qualche anno dopo, quando entrambi giocammo nella Juventus”.
Verona, Pisa e Sampdoria vennero promosse nella massima serie, tu disputasti la A con il Verona, Campionato 1982-83.
“Ci piazzammo al terzo posto e raggiungemmo la finale di Coppa Italia dove ci scontrammo con la Juventus. In campionato avevamo battuto i bianconeri a Verona, mentre uscimmo imbattuti dal comunale di Torino, nella gara di ritorno”.
Ciò era di buon auspicio per la finale.
“Incontrammo una Juve incavolata, arrabbiatissima, reduce dalla sconfitta per 1-0 subita nella finale di Coppa dei Campioni ad opera dell’Amburgo, ad Atene. Pertanto doveva per forza vincere quella finale. All’andata, a Verona, ci imponemmo per 2-0 anche con un mio goal; il ritorno finì 3-0 per la Juve, con il match risolto ai supplementari. La Juventus doveva vincere quella Coppa Italia. In quell’annata, nella classifica cannonieri, realizzai 15 goal piazzandomi alle spalle di Platini, autore di 16 reti”.
Campionato di Serie A 1983-84, Penzo in maglia juventina. Come avvenne? Ti aspettavi il passaggio in bianconero?
“No, sinceramente a trent’anni non me l’aspettavo. La partenza di Roberto Bettega per il Canada rendeva necessario l’acquisto di una punta da affiancare a Paolo Rossi. Individuarono me e così mi ritrovai in bianconero. Nel trasferimento ebbe un ruolo importante Franco Landri, direttore sportivo del Verona che, al tempo stesso, lavorava per la Juventus”.
Che impatto avesti con la Juve?
“Bisogna capire che fino a quel momento ero stato abituato ad un calcio provinciale, in delle squadre a conduzione familiare. Mi trovai dinanzi una macchina organizzativa perfetta, senza cuore, dove non si veniva coccolati. Lo stile Juve si identificava con il rispetto per la società. Con ciò non voglio dire che i miei compagni di squadra non avessero un cuore, mi riferisco alla macchina organizzativa juventina. Certo, quando lo si vedeva in tribuna, l’avvocato Agnelli appariva freddo, integerrimo, ma aveva cuore anche lui. Mi trovai bene anche con i miei nuovi compagni di squadra”.
In quell’annata la Juve vinse Scudetto e Coppa delle Coppe. Al primo turno, sedicesimi della citata Coppa, eliminaste i polacchi del Lechia Danzica subissandoli di goal: all’andata, a Torino, realizzasti 4 dei 7 goal a zero. Infieriste non poco…
“No…era una partita d’inizio stagione e si verificò quel risultato”.
Hai qualche ricordo di quella Coppa?
“Nello stesso anno in cui approdai alla Juventus venne acquistato dal Bari, il barese Nicola Caricola. Nonostante il divario di età, più che un padre mi considerai un fratello maggiore di Nicola, ottimo calciatore, gran bravo ragazzo che, alle volte, aveva delle uscite simpatiche. Ricordo quando giungemmo a Parigi per la sfida con il Paris Saint-Germain. Nel momento in cui ci sistemammo nella stanza d’albergo ed aprii la tenda, Nicola esclamò con sorpresa: ‘Moo, la Torr Eiffeell!’. Lo ricordo ancora con tanto affetto”.
Di goal ne hai realizzati tantissimi, cosa provavi in quei momenti?
“Fare un goal provoca una immensa soddisfazione. Non bisogna però dimenticare, che c’è un gruppo che, in quei trenta secondi di gioia, tributa una gratificazione a chi realizza il goal”.
In quel periodo accarezzasti il sogno di indossare la maglia azzurra della Nazionale?
“In quel 1984 erano in programma le Olimpiadi di Los Angeles e, sinceramente, mi avrebbe fatto piacere parteciparvi con la Nazionale olimpica, ma ciò non avvenne. Pazienza!”.
Perché solo un anno con la Juventus?
“Nella seconda parte del campionato, essendo affetto da pubalgia, andai avanti con delle infiltrazioni. Inoltre si vociferava di un arrivo di Giordano in bianconero. Puoi quindi capire che con Giordano, Platini, Rossi, Boniek, Vignola, sarebbe stato difficile trovare spazio, ma io avevo voglia di giocare. Si prospettò l’alternativa Napoli con la risoluzione del contratto biennale e così ritornai al sud”.
Giordano non andò alla Juve, ma tu vestisti la maglia del Napoli rimanendo così in A, per il Campionato 1984-85.
“Il Napoli cercava un attaccante e su indicazione dall’allenatore, Rino Marchesi, un gran signore, scelse me. Sottoscrissi un contratto triennale con il direttore sportivo, Antonio Juliano, Totonno”.
Napoli che annoverava un certo Diego Armando Maradona.
“Un grande personaggio, dotato di una grande umiltà. Non ha mai fatto pesare il suo estro, il suo essere fuoriclasse sul gruppo che difendeva sempre ed in prima persona. Lui aveva una sua vita personale, noi avevamo la nostra. Lo si apprezzava ancora di più negli allenamenti perché, quando terminavano le sedute, lui continuava ad allenarsi a costo anche di galleggiare sul terreno di gioco ridotto a pantano. Si divertiva come un bambino, era innamorato del pallone”.
Come andò il primo anno a Napoli?
“Non partimmo bene, ma ci riprendemmo nel corso del torneo. In qui momenti di difficoltà dissi la mia durante un pranzo di fine anno. Feci presente, in quella circostanza, che bisognava giocare per la maglia e non solo per i voti dei giornalisti”.
Dopo cosa accade?
“Non trovai spazio nella squadra, il Napoli terminò il campionato alla grande sfiorando la qualificazione per la Coppa Uefa. A fine campionato chiesi di essere ceduto, ma la società non ne volle sapere”.
Ed il campionato 1985-86?
“Le cose si complicarono non solo per gli arrivi del nuovo allenatore, Ottavio Bianchi, e del nuovo direttore sportivo, Italo Allodi, ma anche per il trasferimento a Napoli di Bruno Giordano. Ormai gli spazi per giocare erano chiusi”.
Giungiamo così al campionato 1986-87, quello in cui il Napoli di Bianchi vinse il primo Scudetto della sua storia.
“Chiesi alla società di essere ceduto ad una squadra del nord ma loro, al contrario, volevano cedermi ad una squadra del sud. Intendiamoci, il mio rifiuto non aveva nulla contro le squadre del sud. Non volevo però più saperne di sottoporre la mia famiglia ad ulteriori trasferimenti e così, posto fuori rosa, me ne tornai a Verona, dove già nel 1985 avevo acquistato casa”.
Nell’anno dello scudetto… quindi diventasti Campione d’Italia.
“Non giocai, ero fuori rosa…
Conclusi l’attività agonistica a Trento, in C1, Campionato 1987-88 dove disputai una decina di partite. Ormai ero scarico. Volevo stare con la famiglia e dedicarmi alla famiglia. Mi occupai di altro. Anche se per un certo periodo divenni commentatore televisivo di calcio, non ritenni opportuno rimanere nell’ambiente del calcio”.
Hai avuto uno o più maestri durante la tua esperienza calcistica?
“Due persone in particolare. Il presidente della Romulea, Giuseppe Vilella, che mi dette molte opportunità, in particolare quella di giocare in A, con la Roma, ed Osvaldo Bagnoli, un grande allenatore dal punto di vista professionale ed umano. Con lui ho avuto un rapporto meraviglioso fuori e dentro il campo. Queste due figure mi hanno dato tanto e mi hanno insegnato tanto”.
Hai altri momenti da ricordare?
“Il biennio favoloso trascorso a Verona non solo dal punto di vista dei risultati, ma anche dal punto di vista umano. Ancora oggi ci incontriamo, organizziamo delle rimpatriate fra noi giocatori ed i dirigenti di quello straordinario periodo”.
Un’ultima riflessione sul calcio di ieri e quello di oggi.
“Ai miei tempi non era facile arrivare subito in A, in quanto si doveva fare la gavetta. In quell’epoca c’era la passione, c’era il desiderio che ti spingeva non solo a sognare, ma a fare tanti sacrifici. Avendo passione, si amava quanto si desiderava. Tutti possono sognare, ma sono pochi quelli che realizzano i propri sogni. Ciò, ovviamente, non vale solo per il calcio, ma per tutte le aspirazioni. Visti i risultati raggiunti, io il mio sogno l’ho realizzato.
Bisogna sognare, mai mollare.
Oggi penso che la passione sia venuta meno perché si ha fretta di esordire subito, ma poi ci si perde. Non a caso, vediamo dei giovani calciatori che per danaro sono disposti a giocare nel campionato americano. Potrei capire un trentacinquenne, non un ventiseienne. Ciò accade perché vengono meno passione ed umanità”.