Capita sempre più di frequente di ascoltare lamentele sullo scarso potere d’acquisto di stipendi e salari, anche per i giovani (e non sono molti) che hanno avuto la fortuna di ottenere un contratto di lavoro più o meno stabile, e non quelle collaborazioni esterne, magari mascherate da finte partite Iva, con cui viene fatto ricadere sul precario l’onere di occultare, pagando un commercialista, lo sfruttamento cui è soggetto: un po’ come se si facessero pagare le catene allo schiavo.
A costo di apparire cinico e insensibile alle sofferenze dei lavoratori, sono solito replicare che non sono gli stipendi troppo bassi: è la vita che è divenuta troppo cara. Può sembrare un gioco di parole, ma lo è solo in parte. Una ventina di anni fa, per un giovane apprendista, commesso di supermercato, fattorino, impiegato d’ordine, disporre un salario di due milioni di lire sarebbe parso più che soddisfacente. Era l’epoca in cui in buona parte d’Italia con diecimila lire una pizza e una birra erano assicurate, e in certi casi ci scappava anche il dessert. Dodicimila lire, e non dodici euro, o più, era il prezzo di un piatto di spaghetti alla marinara in un ristorante sulla spiaggia in Versilia (Forte dei Marmi a parte) e con cinquemila lire noleggiavi un lettino sul mare o compravi una camicia ai mercatini.
Poi è venuta l’inflazione da euro, un’inflazione subdola, perché non certificata dall’Istat, in quanto colpiva non il necessario, ma il superfluo; peccato ci sia un superfluo che a volte è indispensabile più del necessario, perché poter portare a cena fuori la ragazza senza tremare all’arrivo del conto contribuisce alla stima di sé più del fatto di poter comprare a basso prezzo una maglietta grazie al dumping cinese. Non aver colto il fenomeno, o meglio non avere fatto nulla per evitarlo, mantenendo il doppio prezzo, in lire e in euro, per almeno due anni e ricordando, con slogan da pubblicità progresso, che un euro non equivale a mille lire, è stato il grande errore di Berlusconi. Strizzando l’occhio alla borghesia bottegaia con i cui voti s’illudeva di poter vincere le elezioni, si inimicò un ceto medio di impiegati e salariati, che contribuì alla sua sconfitta nel 2006.
Nello scorso decennio, però, si era giunti a un parziale accomodamento. Se cenare al ristorante e persino in pizzeria era divenuto per molti proibitivo, ci si consolava con la convivialità a buon mercato degli happy hour, abbuffandoci con le apericene; se il potere d’acquisto era calato, c’era pur sempre la valvola di sfogo dei vari siti come tripadvisor o groupon. Ci si era impoveriti, ma ci si impoveriva allegramente, affogando nel prosecco (doc o taroccato) la nostra preoccupazione per l’avvenire.
La pandemia ci ha privato anche di questo, anche perché osti e albergatori hanno approfittato del desiderio di noi reduci dal lockdown di tornare a vivere. Senza contare che l’alibi della guerra ha condotto a un aumento dei prezzi non solo del superfluo, o presunto tale, ma dello stesso necessario. Generi alimentari come la pasta o gli stessi fagioli, un tempo chiamati la carne dei poveri, sono cresciuti di prezzo in maniera smodata, per tacere ovviamente del costo dei prodotti energetici. Ci si lamenta del prezzo della benzina, ma il fatto che l’acqua minerale – che spesso è semplice acqua del rubinetto trattata – costi al ristorante più di due euro non scandalizza nessuno. A me è capitato l’anno scorso di chiedere in un ristorante sulle Alpi Apuane una caraffa d’acqua del rubinetto e di vedermi imporre con non so quale scusa una bottiglia in plastica di acqua delle Alpi, ma non Apuane, bensì Cozie. Alla faccia del chilometro zero!
Che dire poi della scomparsa del vino della casa in caraffa, sostituito o da uno spocchioso calice semivuoto o da una bordolese a prezzi spesso inarrivabili?
A comprimere il potere d’acquisto di stipendi e salari concorre però anche un altro fattore: la tendenza, comune al pubblico come al privato, di far pagare beni e servizi un tempo gratuiti o ad accrescere il costo di quelli che venivano chiamati servizi a gratuità diffusa. Chi avrebbe detto, vent’anni fa, che anche per parcheggiare in periferia sarebbe stato necessario pagare un euro o più l’ora? Che viaggiare su un frecciabianca, spesso con tempi di percorrenza non dissimili da quelli dei vecchi espressi, sarebbe potuto costare più dello stipendio di un giorno (di qui il successo dei voli e degli autobus low cost, oltre tutto molto più inquinanti, sul modello degli statunitensi greyhound), che in molte stazioni le sale d’aspetto sarebbero state fatte sparire per costringere i clienti desiderosi di sedersi a consumare nel bar interno; che per chi supera una certa fascia di reddito può essere più conveniente farsi fare esami diagnostici da studi privati che pagare il ticket alla Asl? E tutto questo senza contare le vessazioni di natura ecologistica, con la demonizzazione della plastica o l’imposizione dell’acquisto di costose autovetture elettriche o ibride, pena il bando dal centro delle città, e quella subdola forma di ricatto informatico per cui siamo tutti obbligati a possedere un cellulare e almeno un tablet, a memorizzare una decina di password da aggiornare periodicamente, perché con la scusa della “dematerializzazione” dei documenti non ci arrivano più a casa nemmeno il Cud e il cedolino dello stipendio o della pensione.
A tutto questo vorrei aggiungere un’altra osservazione: confrontare i prezzi di oggi con quelli di ieri è molto difficile, perché la qualità è necessariamente cambiata. In certi casi è cambiata in meglio, come nel campo automobilistico, a parte la pretesa del cervello elettronico del veicolo di sovrapporsi alla volontà del guidatore. Ma in altri casi lo scadimento è evidente, soprattutto in campo alimentare. Una volta si cercava l’uovo di giornata; le uova che si vendono oggi durano anche un mese, e non c’è nemmeno bisogno di conservarle in frigorifero. Quando ero bambino io, il latte faceva “la panna”, sconosciuta invece oggi anche al latte cosiddetto intero: evidentemente il grasso è stato sottratto per fare formaggini. La maggior parte del pane in vendita è precotto, per cui si taglia con difficoltà, perché nessun fornaio vuole panificare la notte, complice anche la seconda puntata della saga di Amici miei, e segnatamente l’irresistibile scena dell’Alluvione. Ma lo scadimento della qualità si avverte in tutto: l’agenda su cui annoto il mio diario è fatta di una carta sintetica su cui spesso la penna scivola senza lasciar traccia. Fino a una ventina di anni fa una foratura in bici si riparava mettendo un toppino sulla camera d’aria, ora è d’obbligo sostituire tutto, valvola inclusa, perché la gomma con cui sono fatte le camere d’aria non reggerebbero la riparazione: per averne una buona come una volta bisognerebbe pagarle il triplo. E dove non si può scendere sotto una certa soglia per la qualità, si bara sulla quantità, riducendo il volume e il peso delle confezioni: la massaia poco accorta crede di comprare un chilo di pasta e si accorge solo dopo che ha comprato un pacchetto da 750 grammi, misura un tempo sconosciuta, e non come era la regola, da un chilo.
A tutto questo occorre aggiungere una forma di prelievo occulto, nobilitato da nobili intenti di sicurezza, che contribuisce a sua volta all’impoverimento collettivo. Un caso tipico si registra nell’ambito edilizio. Si cominciò, vent’anni fa, con l’imposizione dei nuovi contatori dell’Enel. Se i precedenti erano facilmente leggibili (bastava osservare la velocità della “ruzzola” per dedurre i consumi) e consentivano un certo margine di tolleranza nel caso di superamento della soglia di consumo pattuita, i nuovi contatori hanno finito per rendere indispensabile la sostituzione di impianti elettrici che avevano funzionato benissimo per decine di anni: un modesto sforamento fa scattare il salvavita. Chiunque abbia ristrutturato la casa, sa bene d’altra parte che costi altissimi sono dovuti dall’esigenza di un numero crescente di certificazioni, per cui si finisce per pagare un lavoro due volte: una volta a chi lavora, una volta a chi mette il bollo su un numero infinito di certificazioni.
Non credo che sia onestamente possibile porre dall’alto un argine a questa degenerazione. Lo Stato, che dovrebbe limitare gli egoismi individuali, spesso ne è complice, perché il politico, di qualunque partito, purtroppo, tende a guardare più alle categorie (non uso il termine “corporazioni”, che ha un suo quarto medievale di nobiltà) piuttosto che al cittadino consumatore. Oltre tutto è proprio il superstato europeo a favorire di più l’aumento dei costi, imponendo norme cervellotiche e contraddittorie che paiono studiate per favorire le lobbies: che senso ha voler limitare l’uso della plastica e poi imporre confezioni monouso per i condimenti ai tavoli dei ristoranti?
Una risposta potrebbe e dovrebbe venire dai consumatori: non solo e non tanto dalle associazioni di categoria, quanto dai singoli. Boicottare le catene di supermercati che attuano aumenti ingiustificati, utilizzare il passaparola per individuare i bar dove si serve ancora il caffè a un euro e magari non si pretende un aumento per un’aggiunta di latte, privilegiare i locali dove si servono le portate col condimento del sorriso e della cortesia, anche a costo di fare qualche centinaio di metri in più. Evitare lo shopping compulsivo o consolatorio e piuttosto entrare nei negozi con lo stesso spirito con cui Socrate si recava al mercato di Atene: per vedere sui banchi di quante cose avrebbe benissimo potuto fare a meno.