Attenzione: questa non è un’intervista. Questa è un’esperienza estetica.
E’ vero che tra me e Sax Nicosia c’erano registratore e domande, ma poi si sono messe in mezzo le risposte e ne è venuto fuori uno spettacolo. Un po’ Pirandello quando incolla maschera e volto, un po’ Grotowski quando esige che l’attore scaraventi lo spettatore in un confronto senza mezze misure nello spazio di un palcoscenico, pardon di una stanza: in questo caso lo spettatore sarei io. Sax Nicosia gesticola, ride, si agita sulla sedia, sbarella gli occhi da me alla stanza, li alza da me al tetto mentre cita Davide Livermore (perché c’è tanto, tantissimo del regista torinese) “Se devi dire: ringrazio il cielo, la testa e la voce devono avere un’impennata”. Poi cala giù la testa e viene pure a me di ringraziare la terra. Capita una o due volte che si alzi in piedi e cominci a mostrare qualche movimento scenico o spalanchi le braccia e quel sorriso entusiasta. Sta per scapparmi un applauso a stanza aperta, quando s’interrompe di botto e pure io mi fermo e ho il sospetto di essere diventata parte dello spettacolo. “Io sono un entusiasta di natura!”, esclama.
Eccolo il volto. Ha un nome il suo en thèos ed è il mestiere di attore, iniziato nel 2000 quando si diploma presso la Scuola per Attori di Luca Ronconi del Teatro Stabile di Torino. Lavora anche con Giancarlo Cobelli, Mauro Avogadro, Ugo Gregoretti, Jerome Savary e Slobodan Milatovic e in particolare con Serena Sinigaglia con cui debutta nel 2009 in “Nozze di Sangue”. Ma è l’incontro con Davide Livermore a incidere di più nella sua carriera e nella sua formazione <<Io lavoro con Davide da quindici anni. Alcuni scrivono di me che sono il suo attore feticcio ma il nostro è solo un rapporto artistico davvero profondo. Comincia nel 2006 a Genova con “Don Giovanni”: un’opera lirica in cui io ero il doppio di Don Giovanni con un lavoro fisico, d’espressione; subito dopo mi ha gratificato in “Il ratto del serraglio” con la parte di Selim, il protagonista ˃˃. Con Livermore copre i più diversi ruoli sia in opere liriche che in spettacoli di prosa: al Teatro Regio di Torino, al Maggio Fiorentino, al Montpellier Opera Festival, al Palau De Les Arts di Valencia. E’ assistente alla regia nelle due inaugurazioni di Livermore alla Scala di Milano: nel 2021 con “A riveder le stelle” e nel 2022 con “Macbeth“. In mezzo c’è il Teatro Greco di Siracusa con Livermore: nel 2019 il ruolo di Menelao in “Elena” gli vale il Premio Assostampa Sicilia 2019 e adesso è protagonista di “Agamennone” e aiuto regista di “Orestea”. In mezzo ci sono “Off Off Arturo” insieme ad Arturo Brachetti, la compagnia Nina’s Drag Queens e la regia di “La Bohème” di Puccini al teatro NCPA di Mumbai in India. In mezzo c’è da quest’anno l’insegnamento all’Accademia D’Arte del Dramma Antico. In mezzo, anzi all’origine, c’è un uomo che si porta addosso un arcobaleno di emotività e di tecnica. E un flusso di parole…
La stagione 2022 della Fondazione Inda chiude con “Orestea”, l’intera trilogia di Eschilo diretta da Livermore. Tu sei protagonista come attore e come assistente alla regia. Un’operazione grande e grandiosa?
“L’operazione è sicuramente ciclopica. Se la domanda è quanto dura l’Orestea, rispondo che una trilogia così importante non può avere un problema di durata. Ogni spettacolo è un rito che deve compiersi. Compiersi perché lo scorso anno abbiamo fatto Coefore Eumenidi per celebrare il centenario della Fondazione e sentivamo che fare tutta l’opera sarebbe stato un bel modo per celebrare questo rito. Non possiamo fare il Bignami dell’Orestea, che è essa stessa un’opera grande. La trilogia affronta sono i temi più importanti che riguardano l’animo umano e la vita sociale. Il tema della Giustizia in Coefore Eumenidi con Atena che convoca la prima assemblea (l’Aeropago n.d.r.) in cui si mette fine alla pratica dell’occhio per occhio. Agamennone ha un altro tema cioè il tema della famiglia e della Ragion di Stato. Cosa fa Agamennone? Compie un atto abietto, indicibile. Ma perché lo copie? Per una ragione di Stato. Lo dico da attore: se interpreto Hitler o Pol Pot io non posso giudicare, so di essere in senso drammaturgico un eroe. Nella realtà chi governa pensa in termini di potere, mai io devo pensare in termini di popolo. Agamennone, la prima cosa che dice è “Giustizia vuole che il mio primo pensiero vada alla città di Argo e ai suoi dei artefici del mio ritorno””.
Mi rendo conto che hai parlato al plurale. Ossia tu e Davide Livermore…
(Sorride orgoglioso) “Quest’anno io sono a riallestire Coefore Eumenidi, mentre nella passata stagione ho fatto l’aiuto regista, perché Davide è impegnato in un’altra regia all’altro capo del mondo. Comunque, sto seguendo le sue indicazioni e faccio i report ogni sera. Tengo a precisare che in Agamennone il regista assistente è Giancarlo Judica Cordiglia, attore della nostra compagnia (Apollo in Coefore Eumenidi, n.d.r.). Quanti primi attori, in Italia, fanno gli assistenti alla regia? Io ho addirittura selezionato le due Ifigenia, Carlotta Messina e Maria Chiara Signorello: stupende! Di solito non funziona così per un attore. Almeno in Italia, mentre in Europa…”.
E come funziona in Italia?
“Funziona che uno fa l’attore e basta. La straordinaria capacità di Livermore, capacità dei grandi registi, è di circondarsi di una squadra eccellente e di creare una famiglia. Per lui, il buon esito di uno spettacolo -lo dice in ogni intervista e qui io non posso fare altro che ripeterlo- è quello di creare un gruppo che sia una famiglia, significa tenere al tentativo di creazione di bellezza, significa tenere al compagno di fianco, significa far sposare agli attori l’idea del regista. Ti faccio un esempio e ti spiego anche qualcosa dell’allestimento dell’Orestea. In scena si vedrà un tappeto led calpestabile. Tocca a me produrre tutta una serie di contributi video, con Luca Casanova di D- Wok, che nell’edizione 2020 non c’erano: il tapis roulant (sul quale corre Oreste, Giuseppe Sartori) è ora un contributo video, un terreno che si muove. Quest’anno vedremo sullo schermo una tomba di marmo con l’iscrizione, una tomba animata ancora di più della mia faccia proiettata. Sto lavorando in autonomia, poi Davide metterà le correzioni e il suo genio. Un primo attore questa cosa non la fa, io sono fiero di farla, di essere parte di un processo artistico”.
Hai una valigia di attore e una di regista?
“Mi piace fare il regista ma il mio lavoro è recitare. Se dovessi scegliere non avrei dubbi. Quanto è bello imparare dai registi! Io sto imparando dal regista più grande del mondo. Davide mi ha insegnato cos’è il disegno totale di uno spettacolo. Lui è un creatore di mondi”.
Per Sax Nicosia attore, che mondo ti sei creato?
“Dopo il diploma con Ronconi, ho lavorato con Serena Sinigaglia. Lei parte dall’improvvisazione e dalla fisicità. Quando la incontrai, la parola improvvisazione mi era sconosciuta, perché non faceva parte del vocabolario dello Stabile. E’ soprattutto questa la mia formazione: mettimi davanti un leggìo e dammi Dante o Pirandello e non ho bisogno di leggerlo per cominciare a recitare. Serena, invece, mi ha portato da un’altra parte: mi ha insegnato a improvvisare. Con Savary nella commedia musicale Irma la dolce ho affinato le doti di cantante. Con Davide sto studiando la tecnica Meisner di Tom Radcliff. E la cosa meravigliosa, propria dello stile di Davide, di accordare la parola alla figura retorica che la veste”.
L’altro Sax Nicosia è l’attore e regista delle Nina’s Drag Queen
“Il lavoro con le Nina’s è legato a Serena Sinigaglia. Feci il provino per il personaggio della Luna in Nozze di Sangue. Serena era convinta che la luna fosse un personaggio androgino, perciò mi mandò a fare il laboratorio con la compagnia di Nina’s. Cominciai come allievo, nonostante fossi l’unico attore professionista, e poi mi chiesero di entrare in compagnia. Il lavoro delle Nina’s è quello sull’utilizzo della maschera teatrale femminile in spettacoli classici. Debuttammo con Il giardino dei ciliegi di Cechov e con loro ho fatto la mia prima regia per uno spettacolo tratto da L’opera dei tre soldi di Brecht . Ma Queen Lear è stato un passo importantissimo nella mia carriera d’attore. Del dramma shakesperiano abbiamo tenuto le istanze familiari e tolto il tema della guerra. Io ero Lea Rossi (LeaR), la protagonista. Lo scorso anno su invito di Antonio Latella alla Biennale di Venezia abbiamo debuttato con Le Gattoparde dal capolavoro di Tomasi di Lampedusa. Siamo l’unica compagnia italiana che utilizza la maschera della Drag Queen ed è un percorso meraviglioso: come diventare un altro. Quello che fa la Drag è un omaggio al femminino, all’essenza della femminilità che ha infinite divine sfaccettature. Può essere la divina popolana e ispirarsi ad Anna Magnani o la divina sublime ed essere Greta Garbo. Fatto da un uomo l’omaggio diventa una dichiarazione d’amore anche verso la madre, la figura femminile più importante al mondo. La Drag è un clown e quando hai quella maschera lì puoi permetterti di dire cose che se non le avessi risulterebbero retoriche. La battuta brechtiana “Cos’ è più criminale rapinare una banca o salvarla dal fallimento?” detta da Polly che è un uomo alto un metro e ottanta e con due spalle così ma con un trucco e una voce da bambina flautata viene giù il teatro!”.
Il travestimento è un lavoro di corpo. A proposito di corpo, tu e Giuseppe Sartori (stato Edipo per Carsen e tornerà a essere Oreste per “Coefore Eumendi”) siete accomunati dalla resa fisica alla scena…
“Che bello! Mi hai fatto pensare allo sforzo fisico di Menelao che trascina la nave e crolla a terra. E Agamennone, personaggio cerebrale, è talmente preso dalla sua vittoria che non vede, è cieco perché vede solo quello che vede lui, pieno di luce negli occhi della sua vittoria. La dedizione fisica ci accomuna. Mi fa piacere che si nota perché per me il corpo è nervi tesi”.
Nervi tesi, dedizione, ansia. Mi sono accorta che tu usi spesso la parola famiglia e la vostra compagnia è sì una macchina da guerra ma è anche un nucleo di complicità, almeno questo arriva al pubblico. Quindi c’è una famiglia che aiuta a vincere l’ansia?
(ride e guarda nel vuoto) “Sì, sono contentissimo che tu dica questa cosa del mio parlare di famiglia. Immagino abbia letto i miei post sui social. E’ vero: la famiglia per me è importante. Tutto quello che io faccio, come esige una famiglia, vuole dedizione assoluta. Davide non smette mai di dirci quanta responsabilità abbiamo nei confronti del pubblico, di chi paga il biglietto: “Dovete recitare sempre come se aveste il cappello davanti a voi, nel quale raccogliete i soldi. Fate in modo che chi vi sta guardando metterà i soldi in quel cappello e voi la sera mangerete. Fate lo spettacolo come se aveste sempre il cappello vuoto”. E’ vero che il nostro lavoro non è un intervento a cuore aperto ma, proprio perché non lo, è io mi ci metto dentro come se lo fosse. L’affinità aiuta. Mi ricordo che quando facevamo Elena, un pomeriggio io e Laura Marinoni cioè Menelao ed Elena in scena, siamo stati fermati da un signore in una via di Ortigia, il quale ci ha detto che facevamo bene la coppia perché eravamo noi stessi una coppia! La canzone finale nelle tragedie è una cosa della famiglia per il pubblico. Lasciare un’ultima immagine, drammaturgicamente in linea con il testo tragico, al pubblico che la ricorderà in assoluto di più. E poi una come Maria Grazia Solano che canta così divinamente, col cuore, con le viscere, una rockstar nel senso più alto del termine, il pubblico se la porta a casa per sempre. La canzone piò sollevare critiche ma la tragedia non è prosa”.
Le critiche arrivano anche perché l’incantesimo rotto con “Elena” di Euripide nel 2019 è una rivoluzione e le rivoluzioni spaventano.
“Per noi è importante non fare abbassare la mascella al pubblico. Il pubblico oggi è abituato a Game of Thrones, a diverse soglie dell’attenzione: in qualche modo lo devi prendere per la collottola, il pubblico. Consideriamo il discorso della tecnologia: il teatro con le macchine teatrali è stato fin dall’antichità il luogo della sperimentazione tecnologica. In questi nostri tempi posso avere uno schermo led che simula un 3D curvo: se mi serve, lo uso. In questo schermo ci metto gli occhi delle Erinni? Sì, perché le Erinni seguono tutto con la pupilla. Ci metto i corvi di Cassandra? Si, perché i corvi hanno una simbologia. La porpora sulla quale Agamennone cammina resa con un artificio scenico? Vivaddio, il teatro non è un museo! Oggi una delle macchine teatrali possibili è il video. E poi sfido di trovare negli ultimi vent’anni un allestimento della Fondazione con i pepli greci!”.
Andiamo alla pancia. Quali attese avete per l’Orestea? Un sold out di pubblico e di critica?
“Si lavora senza pensare al sold out e te lo dico per la dedizione di cui parlavo. Certo, abbiamo tenuto conto della durata e della data. Andare a vedere uno spettacolo lungo il 9 di luglio è pure una questione di clima. I tagli, non tantissimi, sono pensati per rientrare in tre ore e mezza compreso il cambio di scena. Non so se ci sarà il sold out, sebbene sia convinto che i numeri saranno buoni. Ma non si lavora mai per un sold out. Nemmeno e soprattutto per un sold out della critica. La critica fa il suo lavoro e noi il nostro. Davide (ride) non ha mai pensato a questo, lui viene dal Buuuu! dell’opera lirica, dove la critica è agguerrita e il pubblico spietato”.
La prossima stagione Inda: vorreste tornare? Tu vorresti tornare?
“Posso risponderti per me e da attore. Mi piacerebbe tornare con un altro regista. Per misurarmi con una narrazione diversa. In più quest’anno il rapporto con Siracusa si è saldato: sono uno degli insegnanti dell’Accademia e tornerò il prossimo anno. Intanto, mi piace anche tornare a Torino con Maria Stuarda per la regia di Livermore perché Torino è una città che respinge. Non sono protagonista a Torino dal 2006″.
Dimmi una frase per una chiusura ad effetto di questa intervista…
“Ti do un’immagine. Quella degli allievi che alla prova del teatro greco vengono divorati da ansia, dedizione, freschezza, energia: uno tsunami (SBAM!: giuro, lo dice e batte un palmo sull’altro), perché il teatro è la droga più sana ed efficace del mondo”.
(La frase? L’ha detta)