Curatore di prestigiose collane editoriali, fondatore e direttore di riviste e ideatore di premi e festival letterari. Il suo stile espressivo spazia dal “realismo” al “surrealismo” con generosi riferimenti ai luoghi d’origine, come la coltissima Parma. Proviamo a conoscere meglio Guido Conti, autore di una trentina di volumi per Guanda, Rizzoli, Mondadori, Ticinum.
Conti hai un curriculum davvero notevole: quali sono i tuoi maestri e quali vorresti ricordare, qui?
“Quelli storici sono Zavattini e Guareschi, insieme a loro altri autori della mia terra come Bertolucci e Bevilacqua con cui ho avuto un rapporto di vera amicizia. Prima degli altri però c’è stato Pier Vittorio Tondelli, con cui ho anche lavorato, è lui che mi ha spinto a scrivere racconti. Anche all’università mi hanno spronato a leggere gli autori della mia terra, solo così, dicevano, avrei potuto riconoscere la mia voce. Oggi tutti leggono scrittori americani e mitteleuropei, ma è necessario avere un’idea solida del mondo in cui si vive, del luogo in cui si è nati, e ciò avviene solo attraverso la letteratura. In tal modo si può avere un rapporto diverso anche con la letteratura straniera. Studiare Zavattini per esempio significa far propria la poetica del realismo fantastico di García Márquez…”.
Bevilacqua che scrittore era, ha un suo posto nella letteratura italiana? Troppo presto per parlarne?
“È uno degli scrittori più interessanti della seconda metà del Novecento e senz’altro andrebbe reinserito nella storia del romanzo. È autore di capolavori che andrebbero letti e riletti, parlo di “Una scandalosa giovinezza”, “Una città in amore” e “La Califfa” che fu rivoluzionario dal punto di vita linguistico. Ma Bevilacqua andrebbe letto anche come poeta. Come sappiamo ci sono scrittori diventati personaggi televisivi che bisognerebbe trattare in ben altra maniera”.
E Guareschi? Anche lui è famoso per temi e personaggi specifici… C’è un grande Guareschi anche al di là del notissimo Don Camilo?
“Ha scritto oltre mille racconti sulla sua famiglia, dal 1936 al 1968, ma nessuno li ricorda. Più di trent’anni di storia, vista attraverso una famiglia italiana. Guareschi andrebbe letto per tre-quattro motivi fondamentali: fu giornalista cioè polemista, fu disegnatore, fu autore di racconti che ci aiutano a capire come la piccola storia possa entrare nella grande storia. Poi c’è ancora l’umorista, cioè ci sono i suoi romanzi umoristici. Guareschi è stato saccheggiato dagli sceneggiatori della fiction italiana, ma è una figura ricca, difficilmente etichettabile”.
Il fatto che fosse un giornalista arrabbiato può avergli nociuto?
“Moltissimo, anche lì però c’è un fraintendimento. Guareschi scrive sul “Borghese” perché nessun altro gli dà la possibilità di scrivere. Bussava alle porte ma non lo voleva nessuno, era molto polemico e toccava i punti fondamentali della crisi della società democratica. Si pensi alle vignette su Aldo Moro o all’ultimo Don Camillo, quello del dopo Concilio Vaticano II. La verità è che Guareschi è molto complesso e tra l’altro non si può leggere il Don Camillo degli anni Trenta con lo stesso spirito del Don Camillo degli anni Sessanta: è un’altra cosa!”.
Gli ha nociuto anche la polemica con De Gasperi immagino…
“Quei due anni di galera sono stati più duri della prigionia nei Lager nazisti, lì lo hanno massacrato”.
E per Zavattini invece? Lo sceneggiatore, l’uomo di cinema, è più noto dello Zavattini scrittore, anche questo è stato nocivo?
“Certo! In una storia della letteratura per Einaudi, viene definito semplicemente “sceneggiatore di cinema”. Questo dà l’idea di come certi soloni pontifichino senza aver mai letto un libro. Nel Novecento c’è tutta una tradizione di scrittori che non vengono considerati, si crede che siano degli outsider solo perché lavorano per il cinema, la radio, la tivù, e fanno pubblicità, o scrivono canzoni o sono autori teatrali e per di più scrivono romanzi e racconti. Questi autori portano la letteratura fuori dai generi dell’Ottocento. È la modernità! Tra di loro ci sono anche i Pirandello e i Verga, e spesso sono letteralmente inventori di giornali. Zavattini dirige collane e giornali per tutti gli anni Trenta per Rizzoli e Mondadori, diventando direttore di “Topolino”, inventando personaggi che anticipano Superman, lavorando sulla fantascienza prima degli americani. Zavattini è un personaggio innovativo e rivoluzionario. E tra l’altro scrive tre importantissimi libri: “Parliamo tanto di me”, “I poveri sono matti” e “Io sono il diavolo”, ma non vengono mai citati. I vecchi critici non studiano e i giovani ripetono le stesse cose, commettendo gli stessi errori”.
E Soriano, Arpino e Brera? Mi hanno detto che leggi anche questi autori…
“Sono giornalisti, appunto e portano la letteratura all’interno del giornalismo. Oggi invece avviene il contrario, cioè i giornalisti vogliono fare gli scrittori e i risultati sono disastrosi. Gli scrittori dovrebbero tornare a fare i giornalisti veri, ma difficilmente qualcuno consentirebbe che ciò avvenisse. Quasi nessuno peraltro conosce la storia del giornalismo letterario. Chi legge Ugo Ojetti? Lui è stato il maestro di Arbasino, e quest’ultimo è stato un altro grande scrittore-giornalista…”.
E Arpino?
“Anche lui. L’Arpino autore per bambini non viene mai letto! C’è l’Arpino giornalista e c’è l’Arpino narratore, c’è poi lo sportivo e c’è lo scrittore per bambini. Anche Arpino va considerato nella sua complessità. Leggerlo a settori è un errore critico pazzesco! Gli autori non si incasellano. I critici non citano mai Arpino, solo da poco si è cominciato a citare Parise, Manganelli fino a vent’anni fa non lo leggeva nessuno, non lo ristampava nessuno. Adesso lo ha preso Adelphi ed è diventato l’autore dei ‘fighetti”.
Questi sono i tuoi maestri; maestri di una-due generazioni fa, ma oggi di maestri appunto ce ne sono ancora?
“Ultimamente, c’è stato un maestro di grande prestigio che era Giuseppe Pontiggia, che è morto nel 2003; anche Bevilacqua come dicevo è stato un grande maestro. Per me, in generale come contemporanei, ci sono Adriano Prosperi e Carlo Ginzburg. Non ci sono dunque solo i narratori. Altri autori sui quali riflettere, coi quali dialogare sono, per me, Eraldo Affinati e Antonio Franchini”.
Passiamo alle dolenti note. La vera critica letteraria è finita?
“Per nulla! la critica esiste ancora, io per esempio faccio ricerca e sono un critico, Daniela Marcheschi è una critica importante, Amedeo Anelli ha una rivista di alto livello, da trent’anni si occupa di poesia e filosofia. Non è vero che la critica non esista più, come tra gli altri va dicendo Alfonso Berardinelli insieme ai suoi allievi, che sono critici “sgomitanti”. Ma la loro scrittura nasce da una frustrazione che non è il vero sentimento che si deve avere per la letteratura…”.
Ma i critici di oggi hanno ancora peso?
“Oggi sui giornali c’è un inquinamento letterario, perché le recensioni vengono fatte dagli uffici stampa. Ma è un problema dei giornali appunto, non degli scrittori…”
Da ultimo Conti è autore della postfazione ad un recentissimo, interessante, volume di racconti – “Specchi deformanti”, Fuori Asse Edizioni, – nato dall’esperienza della rivista “Fuori-Asse” di Torino. Nei racconti di Gaia Lauria, Giovanna Caggegi, Mascia Cusenza, Elisabetta Savino, Enrico Ghidini, Paola Cerderelli, Anna Prandi, Ornella Cerutti, Antonella Berni, Pietropaolo Morrone, Nicoletta Petrolini, Stefano Trinchero, Cristian Taruscia, Karin Piffer, Andrea Scagliarini, Giorgia Melotti e divisi in due sezioni, «c’è una tensione alla violenza che serpeggia nel nostro vivere quotidiano» scrive Conti che tra l’altro ha curato pagine dedicate a Edgar Allan Poe e Franz Kafka. Una relazione col male, che di certo inquieta e inquieterà il lettore, nondimeno sfacciatamente sincera, de-strutturata e de-strutturante. Le coordinate di tali debolezze “omistiche” vanno dalla metafisica certezza che esso, il male, non possa non esistere, alla storicità delle sue manifestazioni. Dal finale shockante dunque (“Invidia” di Berni) al destino che ben si nasconde nella menzogna (“Agnizione” di Caggegi).
Non siamo sicuri tuttavia che la lettura del volume, come si direbbe in casi diversi da questi, risponda ad una facile pratica di esorcizzazione, in realtà ci pare di cogliere come un fluire liberatorio di pensieri e ponderazioni che accompagnano, o che integrano, le “strambe” teoriche dei nostri tempi, buoniste anzichenò. E su questa strada gli autori provano a sollevare, insieme o in ordine sparso, la questione dell’esistenza di un diritto al male, ovvero di un male che, nella forma e nella sostanza, preesiste a qualunque sforzo di restituire un’icastica in-autenticità allo scorrere dei casi. Viva la sincerità dunque, e viva il diritto, se di diritti si vive e si muore, ad una incontrollata-incontrollabile razionalità.