I risultati delle presidenziali francesi non mi stupiscono: era fatale che Macron, favorito anche da una congiuntura internazionale che ha distratto il dibattito politico dai temi identitari, replicasse il successo di cinque anni fa; quello che semmai mi colpisce è la cospicua crescita dei consensi per Marine Le Pen, che ha totalizzato tredici milioni di voti riuscendo a raccogliere al ballottaggio parte dei suffragi di protesta andati al primo turno al candidato di sinistra Mélenchon. Nonostante lo stigma derivante dai trascorsi rapporti con Putin (una “lettera scarlatta”, come l’ha definito con una immaginifica espressione il politologo Alessandro Campi), nonostante il fatto di non rappresentare più una novità sulla scena politica francese e la campagna di demonizzazione di cui è stata bersaglio soprattutto nelle ultime due settimane, la Le Pen è riuscita a superare nettamente i risultati di cinque anni prima. Sarebbe enfatico definirla la vincitrice morale di queste elezioni, ma senza dubbio ha confermato e consolidato il suo radicamento nella Francia profonda anche se prima l’emergenza Covid, poi la guerra in Ucraina hanno distratto l’attenzione dalle tematiche migratorie che costituiscono il cavallo di battaglia della destra sovranista.
Le divisioni del centrodestra sulla Francia
Quello che mi colpisce, invece, è la fragilità, psicologica, forse, ancor più che politica o aritmetica, del centrodestra italiano in questa circostanza. Un centrodestra diviso fra l’onesto apprezzamento di Matteo Salvini per i risultati ottenuti da Marine Le Pen, il garrulo compiacimento di Maria Stella Gelmini per la vittoria di Macron, condiviso per altro anche da Brunetta e Taiani, e l’imbarazzato silenzio di Giorgia Meloni, divisa fra la solidarietà a un movimento legato a doppio filo alla preistoria del suo partito e il voto di verginità atlantista sottoscritto dopo lo sventurato intervento di Putin in Ucraina.
L’aspetto più singolare della situazione è che la Lega, che ha scelto di entrare nel governo Draghi, ma è consapevole degli enormi rischi che le le sanzioni alla Russia comportano per l’economia italiana, abbia dimostrato un assai minor timore di sfidare i rigori dell’“ucrainamente corretto” di quanto non l’abbia fatto Fratelli d’Italia, che pure dovrebbe avere nel proprio Dna la difesa dell’interesse nazionale.
I sondaggi, che, come i volti dei dipinti secondo i critici d’arte, sono spesso dei “dolci impostori”, danno tuttora il centrodestra vincente in un ipotetico confronto elettorale; ma presupposto di questa vittoria è non solo una unità d’intenti politica, ma un sentire comune sul terreno della politica estera, che forse come non mai, dalla fine della guerra fredda, condiziona la politica interna e lo stesso accesso dei partiti all’area di governo.
Il fattore “Z”
Un grande giornalista, Alberto Ronchey, coniò in un editoriale uscito il 30 marzo 1979 l’espressione “fattore K” (dal russo Kommunism), per indicare i motivi che rendevano impossibile l’ingresso del Pci in una organica coalizione di governo, dopo gli anni tormentati della cosiddetta solidarietà nazionale. Niente esclude che nei prossimi anni il destino politico – ma anche socioeconomico – dell’Italia possa essere condizionato da un nuovo elemento: il fattore Z. Con la differenza che il Pci non andò al governo perché non aveva i numeri per imporsi alla guida del Paese, mentre, in un contesto nel quale i voti, come i pacchetti azionari ai tempi di Cuccia, si pesano piuttosto che essere contati, niente esclude che anche se numericamente vittorioso fra un anno, alle prossime elezioni politiche, il centrodestra quale lo concepiscono ancora i suoi elettori possa trovarsi escluso ancora una volta dall’area di governo.