Marco Valle, giornalista e scrittore, domani la Francia vota per eleggere il prossimo inquilino all’Eliseo. Qual è il quadro della vigilia?
“Tutto si deciderà con gli esiti del primo turno delle presidenziali. Un passaggio centrale che incoronerà lo/la sfidante a Emmanuel Macron e scaraventerà all’angolo i candidati perdenti. Vediamo i numeri. Ad oggi i sondaggi danno il presidente uscente attorno al 27,4 per cento tallonato da Marine Le Pen al 21,10. Seguono al 15,1 il gauchiste Mèlenchon e i due concorrenti destrosi, Eric Zemmour al 10,2 e Valérie Pécresse al 9,7 per cento. Ma nulla è scontato. Nessuno in Francia ha scordato la dura lezione delle scorse elezioni regionali del giugno scorso quando un massiccio astensionismo (il 67 per cento del corpo elettorale disertò le urne…) stravolse ogni pronostico.
Ricordiamo brevemente l’accaduto: Marine Le Pen perse già al primo turno ben nove punti rispetto alle precedenti consultazioni, mentre i sondaggi l’accreditavano come vincente; il partito di Emmanuel Macron “République en Marche!” ricavò solo uno striminzito 10%, “France Insoumise” di Jean-Luc Mélenchon (post-comunisti) rimase ai margini con un 5,7% e i Verdi, altri favoriti della vigilia, si fermarono al 9,10 %. Gli unici a sorridere furono i “Républicains”, il partito della Pécresse, che grazie ad una base anziana ma molto fidelizzata conquistarono inaspettatamente la più parte delle regioni.
Dunque per tutti — soprattutto a destra — la prudenza è d’obbligo. Marine Le Pen, nonostante le molte defezioni (tra tutte quella della nipote Marion) verso Zemmour, prosegue nella sua campagna vecchio stile con un programma molto (troppo?) moderato e decisamente rassicurante. Ma il suo problema principale è rimotivare la base militante, quel “zoccolo duro” in parte disincantato e tentato dall’astensione. Perciò pochi dibattiti televisivi, minima presenza nelle grandi città e tante visite nella provincia profonda, il tradizionale serbatoio lepenista. Al centro dei discorsi pochissima attualità (la guerra in Ucraina è un nervo scoperto per la signora), molta attenzione ai problemi sociali ed economici e la proposta di un (improbabile) governo d’unità nazionale.
Inevitabilmente per Zemmour le cose si sono complicate dopo l’invasione. Un evento che ha interrotto la sua sorprendente ascesa nei sondaggi. Le sue dichiarazioni contrarie ad ospitare i rifugiati e la diversa “comprensione” sulle responsabilità della guerra gli sono costati preziosi punti di percentuale a favore — come indicano gli istituti di ricerca — proprio di Macron. In più poco o nulla ha spostato l’arrivo di Marion Le Pen, personaggio mediaticamente sopravvalutato ma politicamente poco incisivo. In ogni caso il polemista non molla.
Tutta in salita invece la campagna di Valérie Pécresse, la modesta candidata della destra moderata. Dopo il suo clamoroso flop iniziale allo Zenith di Parigi — un discorso incolore che ha spaventato i notabili del suo partito —, madame ha fatto appello agli eletti locali, considerati i migliori portavoce della sua candidatura sul territorio e ha portato la crisi ucraina al centro dei suoi messaggi. Con scarsi risultati, almeno secondo i sondaggi.
Più interessante è Jean-Luc Mélenchon, un personaggio indubbiamente dirompente. L’uomo, già trotskista in gioventù e poi ministro socialista con Jospin, nel 2008 rompe con il PS e costruisce un suo partito personale (dal 2016 La France Insoumise) con cui si candida alle presidenziali nel 2012 arrivando quarto con 11,1 per cento dei voti e nel 2017, sempre quarto ma con il 19,58. Oggi grazie alla sua oratoria travolgente e una grande spregiudicatezza l’uomo è capace d’interpretare il malcontento di diversi (e disomogenei) segmenti della frammentata società francese: ex comunisti e radical chic ma anche parte dei “gilets jaunes” della Francia rurale, tribù multietniche delle banlieue, no vax, militanti woke e altri grumi mal assortiti di disperazione urbana. Nella sua narrazione tutti loro sono il “popolo della Francia creola”, quell’altro “popolo francese” ancora senza rappresentanza, diritti e potere. Una visione demagogica ma certamente pagante”.
Che influenza avrà la crisi ucraina sull’esito della corsa presidenziale?
“Inevitabilmente il conflitto in Ucraina ha “beneficato” il presidente uscente consentendogli d’oscurare il dibattito sul suo contradditorio quinquennato. All’indomani dell’invasione Macron ha posto la questione Russia-Ucraina al centro dei suoi discorsi e, di conseguenza, della campagna elettorale in corso. Il 28 febbraio, il quarto giorno di guerra, Macron si è rivolto solennemente alle forze armate e dall’alto della sua carica di capo supremo ha ribadito la sua “totale fiducia personale” nei loro confronti e ha annunciato la sua volontà di “rinforzare in questi tempi tragici il legame tra l’armée e la nazione”. Un dato inusuale per il marito di Brigitte — che poco ama i militari — ma sicuramente pagante, come certamente pagante è la sua ritrovata visibilità internazionale.
Mentre Macron tiene la scena, i tre candidati della destra francese — Zemmour, Le Pen, Pécresse — sono costretti rivedere contenuti, strategie e tempistiche. Il primo ha scelto, sulla scia dell’eredità gaullista, una linea di non allineamento. In un comizio a Chambèry e poi nei dibattiti televisivi, il giornalista-candidato ha ribadito con forza il suo “né Usa, né Russia, ma sempre e solo la Francia”. Pur condannando l’aggressione, Zemmour si posiziona come “patriota integrale” e rifiuta di scendere nel campo atlantista. Dalla tribuna ha invece denunciato “l’espansione ininterrotta della Nato che ha inquietato i russi costringendoli a battersi per impedirla” e si è detto risolutamente contrario alla fornitura di armi e alle sanzioni internazionali. “Il prezzo del gas esploderà, il prezzo del petrolio aumenterà, i prezzi dei cereali voleranno e saranno i francesi a pagare”.
In più, commentando i tentativi di dialogo di Macron con Mosca, il leader di “Reconquete” si è detto convinto che la Francia può ergersi come legonittimo negoziatore tra le due superpotenze soltanto a condizione di uscire (come già fece de Gaulle nel 1966) dal comando integrato della Nato e ritrovare la sua piena sovranità. “Come insegna la storia si negozia soltanto tra signori, non con i vassalli”. Ciliegina sulla torta, Zemmour si è dichiarato contrario ad accogliere profughi ucraini. “Vogliono restare vicini a casa, inutile portarli da noi”. Insomma, per il candidato la guerra è semplicemente un litigio regionale e un’arma di distrazione mediatica. “Il contrasto tra i fratelli russi e i fratelli ucraini ci fa dimenticare il vero scontro di civiltà in atto. I nostri problemi fondamentali non sono ad Est ma a Sud”. Parole dure e divisive che hanno riportato il polemista nell’occhio del ciclone e causato, secondo l’istituto Ipos-Sopra Steria, qualche ammaccatura nei sondaggi.
Molto più prudente invece Marine Le Pen. La signora ha scelto sulla questione un profilo basso e ha rallentato di molto la sua campagna centellinando al più frasi di circostanza sul conflitto in corso. Non a caso. La sua prima preoccupazione è smarcarsi dalle precedenti posizioni filo russe ed evitare domande imbarazzanti sul suo incontro con Putin nel marzo 2017 o sui prestiti ricevuti sempre in quell’anno da una banca russa e non ancora interamente restituiti. Meglio perciò limitare gli interventi alle conseguenze delle misure internazionali sul potere d’acquisto dei ceti più fragili e periferici, il suo elettorato di riferimento. Del resto in questa anomala campagna elettorale il motto di madame Marine è “innanzitutto adattarsi agli imprevisti”. Bombe comprese.
In difficoltà anche Valérie Pecrésse. Non a caso. Timorosa giustamente della popolarità di Zemmour nel campo post gaullista, la Pécresse non perde occasione per esibire il suo occidentalismo assoluto e accusare il rivale di sulfuree simpatie per la Russia putiniana sino al punto da chiamarlo pubblicamente “Vladimir Zemmour”. Una linea aggressiva che però non ha pagato nel suo scontro televisivo con il giornalista lo scorso 10 marzo su TF1. Nonostante le insinuazioni velenose e ripetute accuse di “putinofilia” Zemmour ha tenuto in qualche modo il punto e il match è finito con uno zero a zero. L’unico exploit della signora si è risolto nella proposta di inviare due “emissari per la pace”, rispettivamente Hubert Vèdrine e Nicolas Sarkozy, a Kiev e a Mosca. Poi qualche banalità assortita e nulla più.
Decisamente più interessante la posizione di Mèlenchon. A differenza dei suoi rivali destristi, il tribuno gauchista sembra non pagare dazio per le sue posizioni sulla guerra in Ucraina e continua a sostenere una posizione equidistante e, non velatamente, critica verso la Nato e l’America. Da qui le accuse di una stizzita Anna Hidalgo (la super perdente candidata socialista) a Mèlenchon, a suo avviso, d’essere “come Zemmour e Le Pen un agente di Putin, un complice dell’attacco all’Europa e ai nostri modelli democratici”. Strali che però non colpiscono il leader di France Insoumise. Il candidato sa bene che il suo elettorato è indifferente a ciò che sta avvenendo ai limiti dell’Europa e palpita invece per altri temi: il costo del gas e dell’elettricità, i prodotti di prima necessità, la disoccupazione, la rabbia sociale”.
Il dossier Corsica ha uno spazio di rilievo nei dibattiti tra candidati?
“Rimane, volutamente, un dato locale. Il potere centrale non ha interesse a portare il problema in primo piano e nessuno dei candidati (tutti, a modo loro, centralisti) ha ricette innovative sulla Corsica. Da qui si comprende lo scetticismo di Gilles Simeoni, presidente della regione e leader autonomista, sulle promesse di Macron dopo i tumulti scatenati dall’assassinio di Yvan Colonna”.
Le Pen e Zemmour. Quali le differenze?
“Zemmour è un personaggio capace di straordinarie performance televisive (3,8 milioni di francesi hanno seguito il suo pirotecnico dibattito con Mélenchon su BFM TV), ma anche e soprattutto è intellettuale raffinato e complesso. Intrigante e libero. Il suo dialogo permanente, ficcante e a volte irritante ma sempre coraggiosamente controcorrente, con la travagliatissima storia di Francia – un continuo interrogarsi sulle vittorie e le sconfitte, sulle cadute e resurrezioni, dalla fronda alla Vandea, da Bonaparte a Dreyfus, da Vichy alla V Repubblica – si è trasformato, libro dopo libro, in una diagnosi acuta, scintillante quanto impietosa, sui mali profondi del Paese. Non a caso i commentatori più attenti hanno ritrovato in questa vocazione una linea diritta, molto francese, che riporta ai “politici letterati”: da Napoleone a Thiers, da De Gaulle a Mitterrand, passando sottotraccia per Giscard e Pompidou. In più sorprende ed entusiasma (disorientando puntualmente gli avversari) il suo miscelare l’amore sconfinato per la Francia con la rivendicata identità israelita e le radici “pieds noires”, i francesi d’Algeria fuggiti dopo l’indipendenza del 1962: un patriottismo genuino, magari apparentemente ingenuo, che diventa fine ragionamento cartesiano con cui demolire, come nel suo best seller Le Suicide Française, le architetture sessantottine viste come la matrice della decostruzione non solo della Nazione ma, attraverso l’attuale follia woke, dell’intera eredità culturale occidentale.
Tema centrale del discorso “zemmuriano” è, ovviamente, la massiccia immigrazione islamica e la pericolosa radicalizzazione di segmenti sempre più larghi delle comunità. Anche su questi temi le analisi e le proposte sono ben più sofisticate dell’armamentario lepenista e si innescano addirittura sul totem del 1789 giacobino. Riprendendo l’appello di Stalislav Clermont Tonnere, l’alfiere della piena cittadinanza agli ebrei durante la Rivoluzione, Zemmour distingue i credenti in Maometto dal sistema giuridico-politico islamico, perciò “tutto per i musulmani in quando individui, nulla in quanto popolo”.
Preoccupata è, ovviamente, Marine Le Pen che ha preso le distanze dallo scomodo concorrente (ed ex amico). “Una parte del suo programma è completamente opposto al mio: donne, economia, immigrazione. La fermezza non può essere confusa con la brutalità. Eric è un polemista non un candidato alle presidenziali. Lui divide, lui separa. Non porta nulla, non aggiunge nulla”. La signora però sa bene che il fenomeno Zemmour non si spegnerà con queste elezioni e che il bottino elettorale che il giornalista raccoglierà al primo turno fornirà la necessaria benzina per le prossime elezioni politiche dove è già prevista la presenza della lista zemmouriana, embrione di un futuro partito neo destrista inclusivo, possibile sintesi tra diverse sensibilità e tradizioni. In prospettiva un rischio esiziale per i lepenisti, sempre più stanchi e sfiduciati. Una lunga fase politica è giunta al tramonto”.
Come era ben chiaro, Zemmour ha fallito di poco l’obiettivo datogli da neo-gollisti e sinistre con la sua impresentabile candidatura: impedire a Marine Le Pen l’accesso al secondo turno. Zemmour ha scarsi motivi di consolazione e non molti di più i suoi sponsor e finanziatori. Comunque, rivincerà Macron.