Il proposito del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi di favorire la reintroduzione dell’insegnamento della lingua latina nelle scuole medie, sia pure subordinandola alla scelta discrezionale dei collegi dei docenti, può apparire paradossale per almeno due motivi. Il primo è che Bianchi, pur essendo stato cooptato come un tecnico nel governo Draghi, oltre a essere un eminente cattedratico è una figura organica al Partito democratico e in quota Pd è stato assessore regionale in Emilia Romagna; e l’antilatinismo ha fatto a lungo parte del patrimonio ideologico della sinistra. Non a caso l’insegnamento del latino alle medie, dal 1962 facoltativo in terza, obbligatorio in seconda, sia pure con la formula un po’ ambigua di “elementari conoscenze” integrative della didattica dell’italiano, fu soppresso nel 1977 durante il governo di unità nazionale. Il secondo è che Bianchi non è un docente di discipline umanistiche, ma uno studioso di economia, laureatosi con Romano Prodi; e negli ambienti manageriali la conoscenza dell’inglese è considerata di solito più importante di quella della nostra lingua mater.
Illuministi e sinistra contro il latino
La realtà è tuttavia più complessa e merita alcune riflessioni. La prima è che, è vero, l’ostilità per il ruolo centrale dello studio del latino e in genere delle lingue classiche nel nostro sistema scolastico ha radici antiche nella sinistra, fin dalla stagione illuministica. All’interno del Pci non mancarono però personalità di spicco, come Concetto Marchesi, che difesero l’importanza della tradizione classica nell’insegnamento medio, in polemica con chi, come il filosofo Antonio Banfi, rivendicava il primato della formazione tecnico-scientifica. Si trattava, certo, di una posizione minoritaria, ma non trascurabile, visto il peso che l’ex rettore dell’università di Padova esercitava nel partito anche per il suo prestigio culturale, nonostante l’eterodossia di certe prese di posizione (alla Costituente, per esempio, Marchesi si rifiutò di votare il riconoscimento dei Patti Lateranensi).
Certo, fino agli anni Ottanta, la dialettica destra/sinistra riguardo all’insegnamento del latino rimase vivace e innalzò i toni negli anni della contestazione. L’istituzione della scuola media unica, una delle riforme più significative del centrosinistra, rappresentò una conciliazione, tutto sommato riuscita, di due diverse impostazioni. In precedenza dopo la scuola elementare l’obbligo scolastico fino a quattordici anni, previsto dalla Costituzione, poteva essere assolto sia nel ginnasio inferiore, propedeutico all’ingresso nei licei o negli istituti magistrali, sia nelle scuole di avviamento. Nel primo lo studio del latino era obbligatorio, nelle altre era assente, a favore di discipline tecnico-pratiche preparatorie all’ingresso negli istituti tecnici o professionali. Fra le istanze di quanti – in prevalenza i socialisti – avrebbero voluto una scuola media “delatinizzata” e quanti, democristiani e non solo. auspicavano la conservazione dell’insegnamento della nostra lingua madre, svolse un’opera di saggia mediazione una burocrazia ministeriale di ottimo livello, costituita in larga parte da ispettori e dirigenti cooptati poco più di vent’anni prima da Giuseppe Bottai e dal suo successore Carlo Alberto Biggini. Si arrivò così a un compromesso, imperfetto come tutti i compromessi, ma con risvolti positivi: il latino rimaneva, obbligatorio in seconda, facoltativo in terza, così come fin dalla seconda divenivano opzionali discipline come le applicazioni tecniche per i maschi (per le femmine permaneva l’insegnamento della “economia domestica”). Certo, alle medie si studiava meno bene il latino rispetto a come lo si studiasse nei vecchi “ginnasietti”, ma in compenso lo studiavano tutti, anche i figli dei mezzadri o degli operai. Riaffiorava con tale formula quello che Rita Calderini, insigne figura di docente e storica avversaria dello sperimentalismo didattico, nel suo saggio L’ insegnamento del latino in Italia dalla riforma Bottai alla riforma Gui, bollò, a mio giudizio esagerando, come il “panlatinismo” della riforma Bottai: una riforma che prevedeva lo studio della nostra lingua madre anche per i futuri ragionieri, geometri, periti. Al di là di quelle che poterono esserne le più o meno valide applicazioni, c’era qualcosa di generoso nel tentativo di far conoscere anche ai figli degli analfabeti la bellezza della lingua di Virgilio e di Cicerone.
L’applicazione della riforma fu ovviamente più o meno felice a seconda delle diverse realtà locali, ma nell’insieme credo che i risultati siano stati positivi. Io, per esempio, entrato in prima media nell’anno scolastico 1963-64, il primo in cui fu applicata la riforma, in terza ero già in grado di tradurre brani scelti del De bello Gallico e qualche lirica di Ovidio, sia pure senza essere ancora in grado di leggerla metricamente. Dovevo questo al fatto che, essendo materie come le applicazioni tecniche facoltative dal secondo anno, avevo potuto concentrare i miei sforzi sulle discipline autenticamente formative, ma anche alla bravura e al rigore della mia insegnante di Lettere. Il corpo docente della scuola media dell’epoca era spesso di un livello molto elevato. Prima della guerra, per esempio, per insegnare Lettere al “ginnasietto”, come veniva chiamato, era necessario saper scrivere un tema in latino: conservo ancora il manuale di composizione latina su cui mia madre si preparò per sostenere il concorso. Bisogna aggiungere che il prestigio sociale e la retribuzione di un insegnante, anche delle medie, era oggi impensabile: alla fine della carriera la sua retribuzione era pari a quella di un tenente colonnello, mentre oggi è sì e no pari a quella di un maresciallo. Non a caso oggi medie, elementari e persino scuole materne (uso le vecchie denominazioni) sono accorpate in istituti comprensivi, con un inevitabile livellamento verso il basso.
Il ruolo della Chiesa
Per tornare all’insegnamento del latino, dopo la riforma del 1962 si verificarono numerose trasformazioni, nella società e soprattutto nella Chiesa. Innanzitutto gli sviluppi conciliari e soprattutto postconciliari condussero a una graduale radiazione dalla liturgia dal latino, contro quelle che sarebbero state le intenzioni di Giovanni XXIII, il quale nella costituzione apostolica Veterum sapientia ne aveva ribadito l’importanza. E non a caso gli attacchi più violenti contro l’insegnamento del latino provennero dalla Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, un pamphlet che divenne, come e più dei pensieri di Mao, un best seller della contestazione studentesca. La riforma del 1977, che da un lato espungeva il latino, dall’altro rendeva obbligatorie materie in precedenza facoltative trasformando in teoriche discipline tecnico-pratiche (tipico il caso delle applicazioni tecniche promosse a educazione tecnologica), nacque in un clima di compromesso storico dalla collusione fra cattolicesimo progressista e sinistra tardosessantottina. Aveva inizio così il declino della scuola media, che oggi è da più parti additata come l’anello debole del sistema italiano dell’istruzione, mentre in passato aveva un alto valore formativo, avvicinando la cultura classica anche ai ceti popolari.
La riforma Codignola
Già da tempo, però, si erano verificate altre trasformazioni, decisamente deleterie per il livello della futura classe dirigente, e non solo. Nel 1969, sotto l’impulso della contestazione studentesca, ma anche nell’ambito di un più vasto disegno di “democratizzazione” (leggi dequalificazione) dell’università, veniva varata la cosiddetta riforma Codignola, che consentiva ai diplomati di qualsiasi istituto di istruzione secondaria superiore di iscriversi a qualsivoglia facoltà. Le conseguenze furono rovinose, sotto diversi punti di vista: il boom delle iscrizioni, soprattutto alle facoltà umanistiche, con la conseguente piaga della disoccupazione intellettuale, l’abbassamento del livello degli studi e la “delatinizzazione” della futura classe dirigente, una delatinizzazione che comporta l’abbassamento della conoscenza dell’italiano persino fra quanti esercitano professioni liberali. Ha fatto scandalo, un paio di mesi fa, la notizia che moltissimi partecipanti ai concorsi per la magistratura erano stati bocciati agli scritti per gli errori di grammatica: notizia allarmante anche perché oggi quello per divenire giudici è un concorso detto di secondo grado, cui non può partecipare qualsiasi neolaureatoin giurisprudenza, come un tempo, ma è necessario essere già funzionari pubblici, avvocati, o quanto meno dottori di ricerca. Al di là della correttezza sintattica degli attuali candidati alla toga, l’idea che un magistrato – ma anche un avvocato – ignori il rosa rosae, quando il nostro diritto civile si basa sul diritto romano, è di per sé aberrante. A questo bisogna aggiungere che, non rappresentando più il percorso privilegiato per l’accesso a tutte le facoltà, il classico si sta trasformando sempre di più in un liceo femminile, tanto più che, con il lambiccato sistema dei test d’accesso a certe facoltà universitarie, sono spesso favoriti i diplomati di istituti professionalizzanti: per entrare a medicina chi proviene da un corso per odontotecnici o per periti chimici è paradossalmente avvantaggiato rispetto a chi ha studiato greco e latino. In passato, certo, esistevano rigidità eccessive, che già prima della riforma Codignola erano state smussate: per esempio un perito industriale non poteva iscriversi a ingegneria, mentre invece, chi sa perché, poteva entrare a economia e commercio. Ma la liberalizzazione generalizzata degli accessi alle facoltà universitarie ha avuto effetti devastanti, di cui oggi paghiamo le conseguenze. Naturalmente, un imbecille rimane un imbecille anche se conosce alla perfezione la sintassi dei casi e la consecutio temporum, così come lo rimane chi parla un fluente inglese o padroneggia il cinese, e si può essere dei geni anche senza aver studiato il latino, come Leonardo da Vinci, “homo sanza lettere”. Però il fine primario della scuola non è di creare dei geni, ma di fornire alla futura classe dirigente, oltre a competenze tecniche, un patrimonio di cultura, di sensibilità, un sentire comune per cui un ingegnere, un ufficiale, un chirurgo, un avvocato quando si trovano a tavola a parlare si riconoscono facilmente dalla proprietà di linguaggio e hanno qualcosa di cui parlare più elevato del campionato di calcio o dell’ultima serie Netflix.
Il latino dimenticato (come battaglia politica) dal berlusconismo
È onesto aggiungere tuttavia un’altra considerazione. La dialettica fra i sostenitori del latino e i suoi avversari a partire dalla fine degli anni Novanta ha conosciuto una modifica. Se prima l’antilatinismo era un cavallo di battaglia della sinistra – in campo scolastico come nell’ambito liturgico, – con l’avvento di un certo berlusconismo rampante, che strizza l’occhio a una neoborghesia incapace di guardare al di là dell’interesse immediato, il latino non è più stato difeso da buona parte del centrodestra. Gli slogan della campagna elettorale di Forza Italia nel 2001, con la proposta di una “scuola delle tre I” (internet, inglese, impresa), rimasero in un primo tempo senza seguito, anche per l’equilibrio del ministro Moratti e l’impegno di Alleanza Nazionale e del suo responsabile scuola, Giuseppe Valditara, contro certe derive riformistiche; ma nel 2008, con l’avvento alla Minerva di Mariastella Gelmini, l’opera di eversione delle radici umanistiche della nostra scuola è andata avanti, con l’istituzione di licei “delatinizzati”, che naturalmente incontrano le preferenze degli studenti e delle famiglie. Oggi abbiamo licei scientifici in cui lo studio del latino è facoltativo, licei sportivi in cui il rosa-rosae può essere sostituito con lo sci, per tacere della piaga dei licei socio-psico-pedagogici istituiti nella maggior parte dei casi per occupare le aule lasciate vuote dalla soppressione delle magistrali. E c’è chi auspica l’istituzione di licei biologici, propedeutici all’ingresso alla facoltà di Medicina. Come se un medico non dovesse essere in primo luogo una persona di cultura, formatasi su valori di humanitas, e non un semplice tecnico, meccanico esecutore di “protocolli” (purtroppo, in molti casi non è già così, e ce ne siamo accorti spesso proprio con l’emergenza Covid).
Ora il ministro Bianchi propone il ritorno del latino alle medie: programma generoso e fin troppo ambizioso, anche perché, come lo stesso inquilino di Viale Trastevere ha fatto notare, difficilmente sarebbe possibile reclutare oggi docenti di latino, sia pure a livelli di base, fra gli stessi laureati in lettere. Se è difficile trovare aspiranti magistrati che conoscano l’italiano, figuriamoci se sarà facile reclutare professori di scuola che abbiano dimestichezza con il latino. L’idea, però, è buona: perché non fare un tentativo?
Dimentichiamoci del Latino, materia ormai per pochi cultori. Cacciata dalle venerande basiliche, poteva il Latino rimanere nelle scuolette del centro-sinistra italico?
Mi piace la critica alle trovate geniali del Codignola, cui dobbiamo lo stato penoso delle facoltà di lettere: ricordo quella della Sapienza negli anni Novanta, una specie di succursale della Stazione Termini con gente bivaccante per le scale e fuoricorso decennali che tentavano di cavarsela senza fare esami di letteratura (neanche italiana). Mi chiedo però: qualcuno gliele ha mai fatte a lui di persona, queste critiche? E come mai in certi blog pseudotradizionalisti capiti di leggere commenti di qualcuno che esalta quella riforma che sarebbe stata “giusta” verso i poverini che non avevano fatto il liceo.
A parte ciò, la scuola media negli anni Ottanta era già a livello comatoso, con insegnanti raccogliticci e confusionari. Per evitare che la cosa balzasse agli occhi, nelle grandi città, dove c’erano più scuole e alcune migliori di altre, si erano inventati una truffa quasi ufficiale: gli alunni dovevano obbligatoriamente essere iscritti nella scuola vicino casa. Ovviamente non era vero, era appunto una truffa ma avallata da provveditorati e insegnanti mediocri e raccogliticci. Purtroppo ormai è tardi per chiamare costoro a risponderne anche penalmente. Nistri, la sapeva questa cosa? Che ne dice?
Commovente infine il giudizio: “un sentire comune per cui un ingegnere, un ufficiale, un chirurgo, un avvocato quando si trovano a tavola a parlare si riconoscono facilmente dalla proprietà di linguaggio e hanno qualcosa di cui parlare più elevato del campionato di calcio o dell’ultima serie Netflix.”. In realtà questi personaggi oggi si esprimono esattamente come tutti gli altri, col solito gergo infarcito di parolacce (che piacciono tanto anche “a destra”) e di banalità a proposito di donne, calcio e via dicendo. Quella che Nistri descrive era la vecchia società divisa in ceti, ormai scomparsa da almeno cinquant’anni. Ma tanto c’è il progresso…