La bella recensione di Andrea Scarano al saggio di Matteo Luca Andriola su La crisi di Suez e la destra nazionale italiana evoca in me molti ricordi e suscita alcune riflessioni.
I ricordi riguardano le vicende della mia famiglia, da parte paterna. Mio nonno, Enrico Nistri, aveva aperto una fiorente ditta di decorazioni al Cairo, dove era pervenuto, attratto dalle ottime opportunità di vita e di lavoro che il governo egiziano offriva alla nutrita comunità italiana, ai primi del Novecento. Purtroppo era scomparso precocemente, nel 1922, ma l’azienda familiare era stata rilevata dal genero e aveva continuato a prosperare, anche se con qualche difficoltà in più, perché con gli accordi di Montreux i privilegi di cui godevano le comunità europee in Egitto si erano andati riducendo.
La situazione precipitò con il 10 giugno 1940: gli inglesi, che esercitavano de facto se non de jure il protettorato sull’Egitto, imposero al governo del Cairo l’arresto e la deportazione in campi di concentramento per gli italiani maschi in età valida, considerati una quinta colonna, e il sequestro dei loro beni. Mio padre riuscì a salvarsi abbandonando l’Egitto poco prima della dichiarazione di guerra, ma non poté evitare la rovina familiare aggravata da altre vicende. Mio zio, titolare della ditta, si fece invece sei anni di prigionia nel campo di Fayed, in pieno deserto.
A quell’epoca, Nasser (e il suo futuro successore Sadat) erano filoitaliani e anche filotedeschi, complice anche la crescente presenza ebraica in Israele (è l’eterna logica algebrica per cui “i nemici dei miei nemici sono miei amici”: meno per meno fa più). L’Italia era, è vero, una potenza coloniale e aveva normalizzato con pugno di ferro la situazione in Libia, ma aveva il grande merito agli occhi dei nazionalisti egiziani di avere sfidato, con successo, l’Inghilterra con l’impresa d’Etiopia. Esisteva un’associazione, Giovane Egitto, i cui adepti sfilavano con le camicie verdi, che godeva di simpatie presso gli stessi ufficiali; l’opinione pubblica egiziana in genere simpatizzava per noi.
Dopo la guerra la situazione cambiò, il sentimento antibritannico si fece ostilità per tutte le potenze coloniali o ex coloniali e Nasser e gli altri giovani ufficiali non si limitarono a sfidare Francia e Inghilterra per la questione di Suez, ma di fatto resero la vita impossibile alle aziende straniere. Mio zio, che aveva cercato di rimettere in piedi l’attività, fu costretto ad abbandonare l’Egitto. Il tutto s’inseriva nella logica della guerra fredda, che consentì a Nasser un’ampia libertà di manovra, appoggiandosi tatticamente all’Unione Sovietica, senza per questo rinunciare a mettere fuori legge il partito comunista.
A inasprire i rapporti fu la dolorosa vicenda del conflitto arabo-israeliano, che radicalizzò, dopo l’impresa di Suez e la guerra dei Sei giorni, il rapporto fra il mondo musulmano e l’Occidente, di cui Israele era considerata un’alleata. La stessa rivoluzione del colonnello Gheddafi, che costò così cara agli italiani, maturò in questo clima di radicalizzazione esasperata dalla sconfitta militare.
Posso comprendere per questo che le posizioni all’interno della destra italiana, analizzate dal bel saggio di Andriola, che sarò felice di leggere, fossero molto articolate. Del resto, giudizi articolati e contrastanti caratterizzarono il mondo della destra anche nei confronti dello Stato d’Israele: basti pensare al filoebraismo di Giano Accame, inviato del “Borghese”, all’epoca della guerra dei Sei Giorni.
La figura di Filippo Anfuso
Particolare interesse merita la figura di Filippo Anfuso. Catanese di straordinaria intelligenza, con un estroso talento letterario, era entrato in diplomazia superando il difficilissimo concorso per l’ingresso nella “carriera” insieme a Galeazzo Ciano, ma con un punteggio più alto di lui. Le loro scelte, com’è noto, divennero divergenti dopo il 25 luglio e l’8 settembre, con l’ex “ministro sui generis” fucilato e lui ambasciatore della Rsi a Berlino, dove cercò di alleviare quanto possibile (cioè poco, ahimè) la sorte dei nostri internati militari e anche di deportati ebrei, come emerse durante il processo Eichmann. Anfuso s’impegnò anche a tutelare l’italianità dei territori del “litorale adriatico” occupati dai tedeschi, anche se avrebbe ammesso nelle sue memorie di vergognarsi per “l’impotenza” dei suoi sforzi.
Dopo la guerra, fu arrestato per il presunto coinvolgimento nell’assassino dei fratelli Rosselli, e due volte assolto, in Francia, dove fu a lungo detenuto, e in Italia. Deputato del Msi dal 1953, si schierò con le correnti di de Marsanich e di Michelini, su posizioni filoatlantiche. Ovviamente avverso al centrosinistra, godeva però della considerazione di Aldo Moro, anche per la sua ottima conoscenza delle questioni mediorientali e i suoi rapporti col mondo arabo.
Il 13 dicembre 1963, alle nove di sera, lo colse un malore in Parlamento mentre stava intervenendo proprio in un dibattito sulla politica estera. Moro, all’epoca presidente del Consiglio, seguiva con molta attenzione le sue parole, e rientrò in aula proprio quando aveva cominciato a parlare. Purtroppo il suo intervento fu disturbato da una serie d’interruzioni dell’onorevole Melis, a proposito delle posizioni antiatlantiste di Max Ascoli, in cui entrambi si rinfacciarono di essere stati in carcere per motivi politici, e il diverbio probabilmente ebbe un effetto scatenante. Il malore, che poi si rivelò un infarto, lo costrinse a interrompere l’intervento. Un deputato che era anche un medico, il democristiano Spinelli, gli recò i primi soccorsi, ma non poté impedirgli di recarsi al banco del governo per scusarsi con Moro di non aver potuto terminare il suo intervento. Da bravo medico Spinelli l’esortò a stendersi sul suo banco, in attesa dell’arrivo di una barella, ma Anfuso gli replicò: “Non facciamo scene qui”. Morì poco dopo: aveva appena 62 anni. Nel suo libro intervista con Aldo Di Lello 60 anni in Fiamma, Franco Servello ricordava con ammirazione la dignità del suo comportamento, una lezione di stile che sarebbe difficilmente compresa dagli odierni parlamentari.
Dopo la morte, i familiari di Anfuso e il Movimento sociale ricevettero numerosi attestati di stima e messaggi di cordoglio. Ma il primo fu quello del presidente egiziano (ed ex camicia verde) Nasser.
Nasser ed il ‘socialismo arabo’ non conclusero nulla.. Puro bla-bla…
E al momento di scappare di fronte agli israeliani gli egiziani si tolsero le scarpe, per farlo più in fretta…
Sono d’accordo, però se fosse stato per loro non avrebbero deportato nel 1940 noi italiani (non avevamo dichiarato guerra all’Egitto) e comunque meglio il socialismo arabo di Nasser che il fondamentalismo dei fratelli musulmani. A volte bisogna scegliere il meno peggio…