In fin dei conti il documentario The Most Beautiful Boy in the World di Kristina Lindström e Kristian Petri (2021) racconta la triste storia di un bel bambino svedese (Björn Andrésen) intrappolato per sempre nella tragedia del decadentismo. Il film uscirà nelle sale italiane il prossimo 13 settembre.
Un vero e proprio destino quello di Björn Andrésen, dopo aver impersonato il Tadzio de’ La morte a Venezia di Thomas Mann per Luchino Visconti, nel suo omonimo film (1971) definito un capolavoro, ma in vero manifesto tardo decadente pure un po’ Kitsch.
Evinto Andrésen dalla vita appunto e dato in pasto al pubblico come il fittizio protagonista del romanzo, dalla penna di un Nobel, fu preda dell’anima del racconto, alter ego di Thomas Mann, Gustav von Aschenbach: spietato amante del bello, artista pedante e metodico al suo tramonto, frustrato nella trappola vita-arte. Come Adolf Hitler e Thomas Mann, celebri decadenti, seppur contrapposti. E come Visconti, al quale per questo sono piaciuti i nazisti maestri incantatori del bello assoluto. Lui però seppe nascondersi dichiarandosi comunista e omosessuale.
E come Thomas Mann ha descritto Tadzio, così per anni e per tutta Europa Visconti lo ha cercato per il suo film, dalla Russia alla Polonia, dall’Ungheria alla Svezia: “Un ragazzo dai capelli lunghi sui quattordici, di una beltà perfetta. Il volto pallido e graziosamente chiuso, incorniciato di capelli color miele, il naso dritto, la bocca vezzosa, un’espressione di gentile divina serietà, ricordava le sculture greche dell’epoca d’oro, e alla pura perfezione della forma univa un fascino così unico e personale, ch’egli (Gustav von Aschenbach) credette di non aver mai incontrato, né in arte né in natura, nulla di così compiutamente riuscito.”
Pura descrizione letteraria di un fanciullo, per portare l’omosessualità latente ai più elevati territori dei canoni estetici, creando struggimento in un amore macerato nel tormento.
È lì, sul limitare della letteratura, che sarebbe dovuta restare La morte a Venezia. Visconti invece l’ha portata al cinema, sfiorando il reale nel provare l’esistenza della pura bellezza. Il grande maestro capace di giostrare l’arte che più di tutte ricrea la vita, ma affliggendo con emozioni, nella sospensione – grazie all’incanto – dell’incredulità del pubblico.
Così Visconti ha ammalato il mondo con Björn Andrésen, come Tadzio ha ammalato Gustav von Aschenbach. Proprio il regista in una delle interviste sull’uscita del suo film ebbe a dire: “Quando poggi gli occhi sulla bellezza, li poggi sulla morte stessa”. In questa frase, c’è la storia di tutto il Novecento. Programmatico, ha pure edificato una gabbia d’oro per un ragazzino, reso icona senza che lo desiderasse, precipitato egli stesso nel tormento quando è diventato quintessenza del bello assoluto.
Proprietario per ben tre anni dei diritti d’immagine di Björn Andrésen Visconti, come si fa col marchio a fuoco sul cuoio della vacca, alla prima londinese del film, in presenza della Regina Elisabetta e di sua figlia Anna, disse del suo Björn: “È il ragazzo più bello del mondo”.
Dimentichiamo che i nostri eroi del cinema non sono personaggi, ma sono attori e un marchio impresso per vendere, inficia per sempre un destino, declassando un individuo a oggetto di culto o – peggio – di desiderio. Lo stesso è accaduto con Robert Powell, dopo essere stato Gesù di Nazareth per Franco Zeffirelli (1977); a proposito di destini nelle astute mani di irriducibili decadenti.
Per Andrésen poi la vita privata è stata costellata di ripetute tragedie familiari, che il film sa raccontare con la giusta distanza e con profondo rispetto. Il contrappeso che proprio col cinema restituisce all’uomo le sue fattezze reali.
In quello stesso antinaturalismo dolceamaro si ritrovò – e lo fa ancora – il Giappone sempre alla ricerca spasmodica di immagini simboliche e preziose. E quando La morte a Venezia riempì le sale, Björn Andrésen assurse a opera d’arte in carne e ossa, immaginata fino ad allora nei manga come eroe o antieroe, nell’emanare in modo naturale anche un lato oscuro, un buco nero quasi che risucchia tutto ciò che lo circonda. Andrésen in Giappone fu subito idolatrato nel suo incarnare appunto il canone del Bishōnen: il ragazzo magro e non troppo muscoloso, dal mento affusolato e un’apparenza quasi effeminata. Quella perfetta androginia, che la fumettista femminista Riyoko Ikeda usò per creare il suo personaggio più famoso, Lady Oscar disegnata a immagine e somiglianza di Andrésen che negli Ottanta in Italia, forse più che altrove, ha segnato una generazione.
È in questa forma che è tornato a noi Björn Andrésen, attraverso il filtro di un’altra invenzione, mentre lo squilibrio arte-vita ha divorato i suoi giorni nel vuoto del senso di solitudine, nell’abbandono di sé, nell’alcol, nella depressione e in atteggiamenti autolesivi. Dice a un certo punto nel film: “Questo è ciò che ti succede, quando non ti senti un essere umano”.