“La voce è la cosa più vicina all’anima” dice Viola Graziosi, attrice tra le più interessanti del teatro italiano. E ha ragione, perché la sua voce punta dritto lì, nel profondo di chi l’ascolta. Con movimento sincrono: un soffio quasi impercettibile sposta l’aria delle parole leggere e dolci e, nello stesso momento, un balzo repentino ghermisce le parole fatte di carne e sangue. Lo stesso movimento che arriva alle orecchie quando dalle sue parole passa, durante l’intervista, alla recitazione dei versi. Tenacia e fragilità sono pure nello sguardo etereo e nel gesto forte che porta sul palco.
“Esisto se mi date un testo e un palco”, un outing appassionato come dire che la vita è arte. La sua è una vita letteraria e senza confini. Nata a Roma, fanciullezza e adolescenza e anima in Tunisia, formazione universitaria e artistica in Francia, sradicamento e ritorno in Italia. Un inizio di carriera legato a Carlo Cecchi che la vuole diciassettenne nel ruolo di Ofelia, quasi intuendone la capacità di prestare corpo e voce alla sensibilità femminile di personaggi scovati nel mito e nel presente, restituiti al pubblico con tremore emotivo. Ofelia cui è tornata con Off-elia Suite che le ha fatto aggiudicare il premio “Actress of Europe 2020”. Poi sono arrivati i lavori a Parigi e in Italia sempre con Cecchi, Paolo Magelli, Piero Maccarinelli, Gabriele Lavia, Emanuele Giliberti e Graziano Piazza, compagno di vita e di arte, misurandosi con il teatro tragico e quello shakesperiano, con Turgenev e Paul Claudel; il cinema anche con Pupi Avati e Cristina Comencini, la televisione e il doppiaggio fino agli audiolibri. Instancabile, Viola Graziosi. Che della simultaneità e della disciplina ha fatto, per caso e per scelta, il suo modo di donarsi al pubblico. “Lavoro con grande gratitudine e dedizione. Alle Olimpiadi ho visto atleti che come me hanno fatto una scelta di vita: pratica e allenamento. Se la scelta e la vita combaciano non puoi sottrarti al compito: il mio è farsi vettore di storie. Non c’è spazio per altro”. Ha appena finito le repliche di Elena tradita di Luca Cedrola, con la regia di Graziano Piazza, Fedra di Seneca con regia di Manuel Giliberti e di Orfeo e Euridice, tratto da Magris e Gluck, con regia sempre di Graziano Piazza.
Ha debuttato con Clitemnestra a luglio per il Teatro Stabile d’Abruzzo, spettacolo che aprirà sabato 21 agosto la sezione teatrale di Barbablu fest, progetto d’arte di Pietrangelo Buttafuoco per il Parco Archeologico di Morgantina nel cuore della Sicilia.
Tu e le donne. Elena, Fedra, Difred, Euridice e ora Clitemnestra. Ma anche un Aiace donna nella suggestiva scrittura di Ghiannis Ritzos. Come ti accosti a loro? Quanto c’è di metodo e quanto di rispecchiamento?
“Tutte queste donne sono parte di me e non ho un metodo scientifico: il mio lavoro va dalla memorizzazione al corpo. Un attore si allena non per un record ma per campi infiniti di verticalità, per portare in alto quello che abbiamo nel profondo, per non disperdere le parole. La mia performance si nutre di quello che c’è intorno, dalla tragedia dell’Afghanistan alle cose più piccole, alle persone che incontri per strada o sulla metro. Per me tutta questa materia è un’ancora che permette di sentire che nel mio piccolo c’è qualcosa che posso fare in teatro. Sento l’onore e l’onere di comunicare parole dei poeti antichi e moderni, di farmi canale di figure femminili. Le parole di Fedra scritte da Seneca parlano della donna di oggi da un punto di vista molto concreto tanto quanto lo fa Luciano Violante con le parole di Clitemnestra. In questo caso un personaggio con la sensibilità femminile ma che contiene un principio maschile. Credo che la delicatezza della trasformazione, propria del femminile, appartenga a entrambi i sessi: non possiamo non riconoscere che donne e uomini contengono la stessa meraviglia e la stessa mostruosità. Ma la parola alla donna è un grido necessario, anche in ragione degli eventi di queste ore con un regime che vuole togliere la parola alle donne. Come attrice, che ha indagato nella trilogia del femminile non a caso è partita con Aiace e continuata con Offelia Suite e Il racconto dell’ancella, è una missione portare attraverso figure o linguaggi diversi quello che può nutrire gli animi, mio e degli spettatori”.
Clitemnestra di Luciano Violante è un testo potente per temi (il dibattito eterno tra giustizia e vendetta, l’amore, la donna, il destino), per contaminazioni (non solo Melville), per scrittura. Come è arrivato questo personaggio?
“Mi ha chiamato Pietrangelo Buttafuoco per un progetto al Teatro dell’Aquila. Mi ha mandato il testo, l’ho letto d’un fiato e dopo un’ora l’ho chiamato per accettare, perché Clitemnestra è un testo di cui mi sono innamorata immediatamente. Ha una poetica al pari di Ritzos, fedele al mito. All’inizio c’è la regina del mito – la bella regia di Giuseppe Dipasquale la fa entrare dal fondo della sala-, che rievoca il passato. Nella seconda metà della drammaturgia Clitemnestra è la donna che sconta la sua pena. Luciano Violante non ha voluto una Clitemnestra vittima dell’uomo come Margaret Atwood con Difred né vuole che la sua sia una vendetta. Dipasquale vi ha innestato un’idea fortissima, immaginandola come una Alda Merini clochard: una barbona con la regalità della poetessa, di una poetessa con lo sguardo oltre il giudizio morale, borghese, anche politico, con il coraggio di guardare la verità. La verità non contiene giustizia, la quale richiede sempre di sacrificare qualcosa. Violante fa dire al suo personaggio “L’equilibrio tra gli uomini impone il tirannicidio quando il calice della prepotenza si colma”. Clitemnestra ha avuto un figlio e un marito assassinati, è stata rapita, violentata, ha visto morire una figlia sotto i propri occhi, come fa a non ammazzare Agamennone?”.
Un personaggio costruito con approccio determinista: tra giustizia e vendetta smette, dunque, di esserci contraddizione? Anche il ricorso ad Alda Merini, lei capace nella pazzia di fare sintesi delle antitesi, risponde a questo?
“Più che assenza di contraddizione, manca il giudizio. Se Clitemnestra perdonasse, sarebbe una santa e quindi ci sarebbe una morale. Ma Violante fa fare a Clitemnestra il gran salto e la fa arrivare ad Achab cioè alla letteratura. Quello che ci può salvare è la cultura, è l’immaginazione, l’azzardo, il sogno di contrastare un destino segnato dalla vendetta”.
Con Melville e Achab che lotta con la balena, Clitemnestra diventa il racconto del destino.
“Sono d’accordo su tutto riguardo Clitemnestra letta da Violante: un personaggio della letteratura e non più, si fa per dire, della storia. L’unica possibilità è continuare a vivere e a sognare. “Forza, tagliamo il grembo degli oceani dove ci attendono i mostri delle nostre passioni che muggiscono dal profondo”. Clitemnestra è meravigliosamente umana. Violante le fa dire “io non volevo adempiere al mio destino…perché essere umani vuol dire costruirsi il destino a differenza dei vitelli e dei capri”. Non dice mai non è colpa mia, ma dice non poteva fare altro. E accusa il popolo di aver taciuto e abbassato gli occhi”.
Anche per te occorre parlare di destino. Il destino di una donna che è prima di tutto attrice?
“Vorrei saper creare la resonance di cui parla Peter Brook. Cuori che battono all’unisono: ciò può accadere solo attraverso il teatro. Il teatro è l’atto mistico che più sento e riconosco dove ognuno porta le proprie idee e la propria lingua. Il teatro deve compiere il miracolo di innalzare insieme attori e pubblico. Se non accade insieme, non accade nulla”.
Tu sei un’attrice originale, nel senso che lavori molto da sola (monologhi) o in allestimenti con pochi attori. Assistere ai tuoi monologhi, anche questo di Clitemnestra, è partecipare a una sorta di ritualità del dono: tu fai un dono al pubblico e lo fai a te stessa recitando. E’ una scelta o una necessità?
“Entrambe. Oggi gli spettacoli con tanti attori sono rari per questioni di finanziamenti. D’altra parte portare me stessa al centro della scena è nato da una mia necessità cominciata con la trilogia del femminile. Ma non penso a me solo come un’attrice di monologhi. Ho voluto il centro della scena per affinare il mio strumento, come un punto di partenza. Se ci pensi, celebrare solo se stessi sarebbe, in questo mondo social, proprio fuori moda Meglio celebrare la vita che è qualcosa di più grande del nostro piccolo io”.
Lavorare con Graziano fa di voi la coppia teatrale per eccellenza nel panorama drammaturgico italiano. Forse siete gli unici. Avete mai pensato sia un limite?
“Intanto non lavoriamo sempre insieme, tranne nei monologhi nati da impulsi spontanei quasi autoprodotti, dalla voglia mia di presentare un testo. Ho orrore del familismo: sono andata a studiare in Francia per essere figlia di nessuno! E’, però, chiaro che non avrei potuto passare la mia vita con nessuno che non sia un attore e con questo attore voglio il “viaggio in India” della mia vita di donna e di attrice. Ci accomuna la ricerca della vita attraverso il teatro e insieme al pubblico e questo ci ha portato a fare prima Intervista e poi Misura per Misura con più attori e i nostri monologhi. Ho avuto sempre paura che questo mestiere mi portasse lontano, forse perché mio padre Paolo Graziosi si perdeva nelle sue varie esperienze, mentre per me il teatro è radice. Ovviamente io e Graziano teniamo a essere all’altezza e nonostante la consapevolezza della sovraesposizione cerchiamo non farne sfoggio ma pratica. Poi, i limiti sono nella possibilità umana: il Covid ce li ha mostrati. L’importante è trasformare il limite in una domanda da coltivare”.
Viola Graziosi e la voce. Viola Graziosi e il volto. La sfida degli audiolibri…
“Col suono di una voce ti arriva la purezza. Hai fatto caso che, quando ti manca una persona o quando la riconosci la cosa più intima è la voce? Negli audiolibri non c’è giudizio, non c’è immagine. Molti ascoltatori non volevano sapere come io fossi fisicamente: togli l’immagine e togli il giudizio. Nonostante la velocità dell’immagine, tra immagine e parola vince la parola”.
Tornando a Clitemnestra e all’indimenticabile interpretazione di Piera egli Esposti a Siracusa nel 2014 in Coefore Eumenidi di Daniele Salvo. Hai pensato a quella sua Clitemnestra così ironica proprio nel dettato recitativo?
“Me ne sono ricordata: inimitabile. L’ho studiata e il libro “Bravo lo stesso” di Manuel Giliberti è stato per me un faro, la sintesi di Piera e della sua ironia e tenacia che mi hanno insegnato come esprimere me stessa. Quando penso a lei, penso a quanto sia complessa la strada per una donna, a quanto noi donne siamo complesse. E come Piera abbia saputo onorare questa vita: un esempio di originalità e autenticità. Il suo pianto e riso della morte di Oreste: straordinario modo di mettere insieme gli opposti, la genialità di rendere nello stile la costante compenetrazione di tante cose”.
Il legame tuo e di Graziano per la Sicilia e per i teatri di pietra è innegabile. Il prossimo anno a Siracusa Davide Livermore completerà l’Orestea e ci sarà in scena la Clitemnestra di Eschilo. Ti piacerebbe che andasse in scena anche la tua in quei giorni? Per rifare quello straordinario gioco di specchi che fu di Elena nel 2019.
“Sarebbe bellissimo. Anche per il legame con Laura Marinoni, per me una maestra per la splendida Clitemnestra che ha portato quest’anno a Siracusa. Abbiamo fatto le due Elene e ora ci sono le due Clitemnestre. Mi auguro di venire a Siracusa con questo spettacolo perché sarebbe interessante anche per il pubblico vedere Clitemnestra con il linguaggio di Violante e la lettura di Dipasquale che le ha fatto acquisire una sorta di leggerezza. Siracusa e il suo teatro meriterebbe un testo come questo, anche la barbona Merini mentre attraversa le macerie e trova una via di umanità, di vigore e desiderio. Meglio attraversare quello che ci fa paura e conoscere se stessi che ingrigire e pietrificarci o seguire gli dei che sono i potenti”.