Il TpiY assolve l’imputato Milosevic e l’”interventismo umanitario” non chiede scusa
Dieci anni fa a Belgrado – davanti a cinquantamila persone – si celebra il funerale di Slobodan Milosevic. I rappresentanti delle potenze vincitrici nel 1999 stanno alla larga dall’immensa piazza, chi per convinzione, chi per necessità. Ci sono però delegazioni cinesi, russe, bielorusse, indiane, in rappresentanza di due miliardi di persone… E’ il 19 marzo, la stampa italiana sciopera. Ma non il Giornale: nessun altro collega si scomoda “per un criminale”. Certi scoop sono come il potere: non si fanno, si raccattano. Sul numero del 20 marzo de Il Giornale Milosevic è dunque ricordato con rispetto. Da me. Meno da qualche altro, ma il mestiere nel 2006 è ancora una polifonia: c’è posto per tutti.
La risposta al quesito “perché scomodarsi per un criminale” si ha solo nel marzo 2016: condanna, da parte del Tribunale penale internazionale per la Jugoslavia (Tpiy), a 40 anni per Radovan Karazdic, capo dei serbi di Bosnia; ma – con ampia motivazione – questa stessa sentenza rileva che prove contro Milosevic non ce ne sono. Un’assoluzione irrituale e postuma, ma un’assoluzione a tutti gli effetti di un presidente eletto più volte dal suo popolo e abbattuto con ogni mezzo da governi ostili.
Nei giorni scorsi, Giulietto Chiesa lo rileva, specificando che il magistrato coreano, che ha stilato la motivazione per Karazdic, si è prima occupato dell’istruttoria su Milosevic. Ma tutto ciò passa sotto silenzio su una stampa che – non solo in Italia – riflette ora ogni interesse, salvo quello dell’informazione. Con la proclamata innocenza di Milosevic – morto tra le sbarre dopo sei anni di ingiusta detenzione – si sotterra infatti la già esigua reputazione non tanto del TpiY, quanto delle potenze che l’hanno voluto per continuare la guerra alla Serbia (e alla Russia) con altri mezzi.
Si noti che sempre il Tpiy, dimostratosi meno docile del previsto, infatti proscioglie e scarcera – a soli due giorni dalla condanna di Karazdic, ma anche dopo tredici anni di detenzione preventiva, l’esponente nazionalista serbo Vojislav Seselj.
I magistrati internazionali hanno fatto il loro lavoro in tempi lunghi perchè l’indagine era estesissima, ma l’hanno fatto. Quei tempi sono del resto serviti alle potenze ostili alla Serbia per ottenere quasi tutto ciò che era perseguito sotto il mantello dell’”interventismo umanitario” sbandierato in Bosnia (1995) e in Kosovo (1999). La sopraffazione paga volentieri un prezzo alla virtù ed è l’ipocrisia…
Dopo lo smacco dell’inesistente “pistola fumante” in Irak (2003), in Serbia perfino i seguaci di Boris Tadic, presidente due volte imposto dai vincitori stranieri del 1999, capiscono ormai che il bersaglio degli “umanitari” non è stato un governo discutibile, come lo è ogni governo, quello di Milosevic. Il bersaglio è stato un popolo: quello serbo.
A chi si chieda oggi che cosa ha fatto l’Italia in Serbia, si può rispondere che ha fatto meno peggio degli alleati. Anzi, con la nostra politica estera del “vorrei e, talora, posso”, siamo stati i migliori. Silvio Berlusconi ha commesso nel 2003 l’errore di non chiedere agli Stati Uniti una garanzia pubblica che il Kosovo restasse alla Serbia, conditio sine qua non per l’adesione italiana alla guerra contro l’Irak, adesione che si vede in Libia come non sia rimasta impunita, perché dietro l’Irak c’era la Francia e dietro la Francia c’era la Germania.
Ma restiamo alla Serbia. Quella del dopo-Milosevic vede proclamare lo stato d’emergenza dopo l’assassinio di Zoran Djindjic, diventato capo del governo serbo per volontà tedesca. Poi vede una maggioranza popolare trasversale (la stessa con la quale governava Milosevic), alla quale è negata la maggioranza parlamentare. Quindi vede imporsi un potere delegittimato, deciso sempre dall’estero, fino a subire nel 2009 la secessione del Montenegro, rischiando un’altra guerra, quella civile. Infatti i montenegrini sono serbi di stirpe e ortodossi di fede.
Se questi rischi si sono allontanati con la riaffiorante identità tra volontà popolare maggioritaria e governi in carica è stato anche merito dell’Italia, quindi dei suoi ambasciatori, specie negli anni delicati dopo il 1999: Antonio Zanardi Landi e Alessandro Merola. Quest’ultimo è scomparso lunedì scorso: anche il nostro popolo ha dei prodi, ma se ne accorge solo quando gli mancano.