Lo Yangtze, ma anche il Mekong, il Brahmaputra (poi Gange), l’Irrawaddy, il Salween, l’Indo: sono alcuni degli immensi fiumi che nascono, del tutto o in parte, sull’altopiano del Tibet. La “proprietaria” delle loro sorgenti è quindi la Cina, la maggior potenza asiatica, che dalla sua posizione di dominio ha però rigettato in passato ogni proposta da parte dell’ONU di sottoscrivere accordi di water sharing, ovvero per regolare la gestione dei fiumi internazionali. Pechino preferisce negoziare con i singoli paesi, bilateralmente e informalmente, volta per volta, e far valere la propria posizione di vantaggio.
Un accordo (non sottoscritto dalla Cina) per la gestione di un fiume politicamente conteso, ad esempio la Mekong River Commission, istituita nel 1995 da Cambogia, Laos, Thailandia e Vietnam e nata per impedire che i paesi “a monte” agiscano a scapito di quelli “a valle”. Si è ottenuto qualche risultato sul versante delle intese ambientali (salvaguardia di alcuni ecosistemi particolari), ma le tensioni geopolitiche stanno comunque aumentando: il motivo? Nei prossimi anni saranno costruite sul Mekong extracinese decine di dighe. La maggior parte delle quali finanziate proprio dalla Repubblica Popolare Cinese e realizzate da imprese cinesi.
Anzitutto nel Laos, un paese di montagna che vuole diventare la “batteria del sud est asiatico” vendendo energia a cinesi e thailandesi. Con l’opposizione però di Cambogia e Vietnam, che dipendono dalla pesca di fiume (il bacino del Mekong è l’area d’acqua dolce più pescosa del mondo) e sono vittime dei danni causati dalle dighe al ciclo riproduttivo di molte specie ittiche. Non solo: la riduzione di volume a monte fa sì che l’acqua salata dal mare risalga lungo il fiume con gravi conseguenze sull’ecosistema. Critica la situazione anche per l’agricoltura: il delta del Mekong, sempre più salato, fornisce il 50% dell’acqua necessaria al Vietnam per la coltivazione del riso (il 16% del PIL vietnamita); le dighe cinesi inoltre trattengono l’80% di quei detriti che, trasportati a valle, arricchivano di nutrienti minerali l’acqua usata per irrigare i campi.
Non semplice neppure la gestione dell’Irrawaddy, nel Myanmar. La giunta militare ha approvato nel 2006 la costruzione di una maxi-diga, la Myitsone, per venderne l’energia ai vicini cinesi. Il progetto è gestito dalla China Power Investment corp, ma anche da una compagnia locale, la Asia World, guidata dal boss (cinese) del traffico di oppio nel Triangolo d’oro. La costruzione è stata osteggiata per “preoccupazioni ambientali” dal nuovo presidente birmano, Thei Sein: un ex generale in congedo che ha studiato in Kansas e che sta provando a guardare all’America.
Gli USA sono infatti molto interessati al futuro dell’Indocina. L’amministrazione Obama ha lanciato nel 2009 la Lower Mekong Initiative, un finanziamento di 200 milioni di dollari annui per disincentivare nei paesi del sudest asiatico la costruzione di dighe. Ambientalismo? Forse, ma soprattutto il tentativo di danneggiare gli investimenti dei cinesi, che sono mandanti, beneficiari o comunque soci di quasi tutti i progetti idroelettrici in Indocina.
La Cina però non resta guardare e in Myanmar rilancia: oltre ai 3 miliardi di dollari per la diga di Myitsone, sono pronti altri 5 miliardi per un gasdotto/oleodotto che collegherà la Cina alla costa del Myanmar sull’Oceano Indiano. Il gas e il greggio provenienti dai fornitori mediorientali e africani non dovranno così più passare per le acque thailandesi e malesi, ricche di pirati, né per il trafficato stretto di Malacca, tra Malesia, Indonesia e Singapore, paesi più vicini a Washington. Proprio l’America, se vuole provare ad arginare lo strapotere cinese, dovrà allora presto decidere come comportarsi con l’unico possibile argine alla Cina nell’area: l’enorme, e sempre più assetato, subcontinente indiano.