Da domani, su Raiuno, andrà in onda la prima puntata di uno “sceneggiato” in sei puntate, Un matrimonio, realizzato da Pupi Avati.
Una parolaccia, il matrimonio. Figuriamoci se tradizionale. Basta pronunciarla per provocare alzate di spalle e uno sguardo di annoiata disapprovazione. Non ha la leggerezza e il fascino trasgressivo della coppia omosessuale. Non fa notizia, se non in occasione di qualche orrendo delitto quando il male – che, come tutti sanno, cova all’interno delle famiglie – si manifesta nelle sue forme più devastanti. Non ha eserciti. Non ha movimenti. Non ha tifoserie. Non ha, a dirla tutta, neanche una coerente rappresentanza parlamentare. Difficile trovare uomini e donne che non siano passati per un divorzio, persino tra chi sbandiera il valore della famiglia tradizionale per poi ammainarla, oltre che nella mediazione d’aula, anche nella vita. Perché invecchiare accanto a un’altra persona quando si può rinnovare la promessa con partner più freschi? Perché mettere al mondo dei figli quando si può rimanere giovani – cullarsi nell’illusione, almeno – e godere, finché possibile, dei privilegi di tale condizione? Tutto pienamente legittimo, intendiamoci. Viva il divorzio, a porre fine all’inaudita sofferenza di un amore che finisce. Liberi di fare della propria vita quel che si vuole. Liberi di frequentare chi si preferisce. Tutti hanno diritto a mangiare la pasta Barilla, ci mancherebbe altro. Non so voi, ma chi scrive, marito e padre di tre figli, non ha alcuna voglia di rivendicare l’orgoglio di una specie, peraltro in estinzione, o di dichiarare guerra ad altre unioni, sicuramente più trendy.
Rivendichiamo, piuttosto, il diritto alla nostra felicità, anche se facciamo parte della riserva indiana delle famiglie numerose. Storie semplici e una volta comuni, come quella di Un matrimonio, seicento minuti divisi in sei puntate a partire da domani in prima serata su Raiuno. Un, articolo rigorosamente indeterminativo per raccontare un amore che non ha particolari velleità di originalità. Film per la televisione confezionato da Pupi Avati, l’estremista moderato che, con ben cinquantant’anni di matrimonio all’attivo, può essere considerato l’ultimo crociato dei registi cattolici in un mondo dominato dalla fighetteria progressista. E no, non chiamatela fiction. La fiction è quella di chi vive vite fasulle, di chi sceglie la comoda strada del remake, di chi recita un unico ruolo sino a farsi macchietta. È uno sceneggiato, semmai, com’è giusto che si chiami un’opera con un appeal dal retrogusto vintage. Sbadigliate pure, non ci offenderemo.