Massimo Donà, filosofo di primo piano nel panorama italiano, sta vivendo una fase di intensa creatività. Tra le sue più recenti pubblicazioni va segnalata, Cinematocrazia, nelle librerie per i tipi di Mimesis edizioni (per ordini: 02/24861657, mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 281, euro 20,00). Fin dalle prime pagine, è possibile evincere il senso ultimo dell’arte cinematografica che ha tratto filosofico e liberatorio: «al cinema i vincoli che di norma costringono la nostra coscienza vigile sembrano allentarsi: e la normale consapevolezza si apre a zone d’ombra altrimenti vietate» (p. 9). Sullo schermo bianco, nella sala che ci ospita al buio, risuona il fondo “abissale” della vita, la potenza dinamica dell’immagine, voce di una Natura non normabile dal concetto e: «i cui percorsi sono imprevedibili ed asimmetrici» (p. 9).
Il cinema ha natura, puntualizza Donà, sofistica, in quanto la menzogna filmica non può mai venire sinceramente riconosciuta e ci pone di fronte all’erranza stessa del vero. Le pellicole sciolgono i legami teleologici che si intrecciano con i percorsi delle nostre azioni e riescono a spacciare per vero: «quel che si sa benissimo esser falso» (p. 14). La cinematografia preserva, così, il misterium della vita, il suo essere enigma insolubile, come nelle corde della tradizione del “fantastico” barocco che, proponendo mondi rovesciati, in realtà ribadisce ciò che la tradizione filosofica d’Europa ha sempre saputo: le cose non sono mai quello che dicono di essere. Il cinema è, quindi, gioco che ha: «natura eminentemente miracolosa», magica (p.15). Il positivo filmico non è mai contrapposto al negativo, trattandosi, in ogni caso di una menzogna, che ci consente di incontrare, de visu, l’aporeticità del trionfo del vero.
Tale motivo lo si evince, come mostra con persuasività d’accenti Donà, dal film di Alain Resnais, Melò del 1986. Un’opera centrata sulla descrizione del più classico triangolo amoroso e in cui nella prima parte, Marcel, uno dei protagonisti, non accetta, non tanto il tradimento dell’amata Helene, quanto il suo mentire rispetto ad esso. Egli impersona la verità epistemico-concettuale discendente dal principio d’identità, che distingue, in primis, l’essere dal non-essere. Successivamente, alla luce del suo amore per Maniche, Marcel si trasfigura comprendendo: «che chi tradisce, chi si pone come altro dalla verità della distinzione […] non potrà mai riconoscere la propria alterità» (p. 24). Lungo il medesimo sentiero teorico, Donà presenta l’esegesi di film quali Blade Runner e Matrix, consentendo al lettore di evincere come l’immutabile: «sia il luogo da cui […] prende le mosse ogni mutamento e di cui ogni mutamento è continua e perfetta […] per quanto paradossale, espressione» (p. 34). La perfezione della macchina, che si mostra in tali produzioni, è tale solo quando assume il volto della naturalità. Si pensi a 2001: Odissea nello spazio in cui il computer centrale: «riesce persino a commettere errori, proprio come un umano» (p. 39).
Al cinema riusciamo a dare un altro significato all’immortalità corporea, in quanto gli atti del nostro corpo divengono: «infinitamente replicabili» (p. 40). Inoltre, come spettatori, nella sala cinematografica non tocchiamo né siamo toccati. Ci percepiamo nello stato del Noli me tangere!: pura anima dedita alla pura contemplazione. L’arte cinematografica illumina la vita e la corporeità, trascrivendo sullo schermo quel che resta dell’evento, l’invisibile che disegna ogni corpo, quel non originario che è: «centro di gravità permanente di ogni flusso vitale» (p. 44), non meta finale e conclusiva della vita. Quest’arte realizza la decostruzione del soggetto e della sua relazione apprensiva nei confronti dell’oggetto. Stante le lezioni in tema di Foucault e Deleuze, il narrato filmico ha uno sviluppo centrato sul “dispositivo”, vale a dire su una matassa, un insieme multilineare: «composto di linee di natura diversa» (p. 50).
In Prénom Carmen di Godard, ricorda l’autore, le linee del “dispositivo” sotteso alla storia sospingono la narrazione degli eventi verso improvvise interruzioni o sovrapposizioni inaspettate. La ricerca di Carmen si espone su qualcosa di irrintracciabile: la vita nel suo darsi e cercarsi infinito. Godard, attraverso la protagonista, pone in scacco il tratto significante della narrazione, convinto che il regista: «non possa proporsi di comporre e ridurre a unità» (p. 58), le incrinature e i frammenti di storie soggiacenti al narrato. Egli, al contrario, dovrebbe mirare, ad un’azione “fotografica”, dovrebbe tendere al cinema quale scrittura di luce, nella consapevolezza che solo la luce rinvia all’irradiarsi dell’origine. Infatti, nel “dispositivo” filmico, a sollevarsi dal flusso vitale, è solo uno dei volti possibili del principio. L’arché non è mai esperibile in toto attraverso il “vedere” in quanto in sé indefinibile.
Nelle pagine di Donà risulta centrale la discussione delle tesi di Deleuze. Il filosofo francese sostenne che l’immagine cinematografica non è mai riferita alla coscienza, al contrario la pensò afferente ad uno stato della materia. Tale concezione risulta eversiva nei confronti del primato accordato al soggetto dal pensiero moderno e ripropone tematiche già presenti in Spinoza e Hume. Bergson fu colloquiante d’eccezione di Deleuze lungo tale iter. Il filosofo veneziano compie uno scandaglio minuto e convincente delle loro posizioni, mostrando come l’immagine deleuziana sia a-sostanziale. Essa coincide di fatto con il movimento ed è riducibile al moto assoluto di cui ogni oggetto è espressione. La diversità delle immagini è risultato di un décalage, di uno scarto, un ostacolo, una negatività. In tale contesto, la coscienza è ridotta a: «buco nero destinato ad interrompere la luce del movimento cosmico» (p. 74). Il cinema riconsegna la vita all’istante qualsiasi, svincolato da ogni riferimento eidetico, e alla gratuità, sempre aperta al possibile e al novum.
E’, quindi, possibile sostenere che tale arte manifesti un’eterotopia (Foucault). Essa si mostra in forza della conoscenza noetica, la cui qualità primaria permette di frangere le determinazioni per tra-guardare ogni oggettualità. Il cinema, come la filosofia, è occhio aperto sull’invisibile, che ha rappresentato il mondo animale, quale luogo dell’utopia. L’animalità presentata in talune pellicole mostra il ribaltamento della prospettiva platonica e logocentrica: solo il fondo senziente, a-logico della vita, consente di mirare un “bene” che possa divenire libera esperienza. A tale dato alludono le esegesi che Donà compie di King Kong e Uccelli. Altrettanto rilevanti sono le analisi de, Il pranzo di Babette e de La grande abbuffata. Nel primo film, il rapporto con il cibo ci costringe a rompere le catene imposte dall’interiorità, spingendoci alla donazione e all’apertura verso l’altro, nel secondo si mostra, per esperienza, il tratto mortifero del consumo che domina la società contemporanea, attraverso la sua paradossale e radicale assunzione, che conduce alla morte i protagonisti del narrato. Dalla visione di Django di Tarantino si comprende come le distinzioni, nella realtà contingente, non siano mai assolute, l’assolutamente altro può avere anche il nostro volto.
Questi sono alcuni temi trattati da Donà. La sua è una lettura quanto mai convincente del potere disvelativo del cinema.