In Irlanda del Nord si torna a parlare di Troubles. Un’espressione riduttiva, a rifletterci, se passiamo in rassegna gli episodi esplosivi che deflagrarono tra gli anni Settanta e Ottanta nella sfortunata terra delle Sei Contee: dalla lotta per l’autodeterminazione condotta dai patrioti repubblicani agli scontri con le truppe “regolari” e le milizie unioniste, dalla ripugnanza reciproca (pressoché inesausta) di nazionalisti cattolici e lealisti protestanti agli scioperi contro le condizioni disumane patite nelle carceri inglesi col successivo, eroico martirio di Bobby Sands, gli eventi del Paese oppresso dalla stoffa asfissiante dell’Union Jack rievocano soprattutto -e purtroppo- storie di violenze e soprusi. Eppure la battaglia, la guerra di redenzione del popolo irlandese non è cessata, non si è sopita. Continua ad ispirare le vocazioni ideali di tutti i combattenti per la libertà che nell’indipendenza della loro gente e della loro comunità hanno identificato la causa della propria esistenza. Uno tra questi è senza dubbio Gerry Adams, figura iconica del Sinn Féin (il partito nazionalista operativo nell’intera Isola), amico e sodale di Sands, che intravede adesso la possibilità di un’epocale riunificazione.
Gli effetti della Brexit
Dopo i fatti del 2016, con la decisione del Regno Unito di abbandonare l’Unione Europea, l’Irlanda del Nord ha conosciuto un diffuso -rinfiorato- malcontento: “La Brexit”, spiega Adams in una recente intervista a L’Espresso, firmata per il quarantesimo anniversario della morte di Bobby Sands (5 maggio 1981), “ha aumentato l’interesse per il referendum. È importante ricordare che la maggioranza delle persone nel Nord ha votato per rimanere nella Ue, proprio come la Scozia. I partiti unionisti filo-britannici e il governo britannico ignorano questo voto democratico. Di conseguenza, molti cittadini che potrebbero non aver mai pensato all’unità irlandese oggi la considerano un’opzione praticabile per il futuro”. Invero, bisognerebbe rilevare che lo stesso rappresentante del Sinn Féin si era distinto, nel corso della sua leadership, per una certa diffidenza nei confronti dell’Unione e del suo establishment. Ma il punto, in ogni caso, non è questo: a detta di Adams, lo scollamento tutto inglese dall’agglomerato europeo non avrebbe fatto altro che irrobustire la volontà, crescente, di rinsaldare l’opportunità di un’Irlanda compatta come migliore prospettiva per l’avvenire; un’ipotesi perseguibile, riconosciuta dall’Accordo del Venerdì Santo che ventitré anni or sono fu siglato per sfiduciare la segregazione ai danni dei cattolici nazionalisti, delle frange irredentiste e identitarie votate all’emancipazione delle Sei Contee dal dominio coloniale britannico.
“Ma voglio ricordare”, insiste Adams nel dialogo con Gigi Riva, “che quel trattato non era una soluzione, ma un accordo per ulteriori cambiamenti nel tempo a venire. Da quando è stato raggiunto sono stati compiuti molti progressi nel campo dei diritti umani e della fine della discriminazione. Tuttavia gli eventi degli ultimi giorni ci insegnano che c’è ancora molto lavoro da fare. Solo in un’Irlanda unita il passato sarà veramente passato e le persone potranno concentrarsi sul futuro”.
In nome di Bobby Sands
Una convenzione, quella del 1998, cui la collettività irlandese è potuta giungere dopo decenni incessanti di repressione poliziesca, attentati, esecuzioni. Decenni sui quali pesa il sangue tormentato dei ribelli, mai inclini ad accettare la soppressione di una tradizione millenaria, dei suoi simboli e della sua fisionomia. Una convenzione che, afferma Adams, avrebbe inorgoglito Bobby Sands e i rivoluzionari ingabbiati nelle celle di Long Kesh: è grazie al loro sacrificio se oggi si riesce a intrattenere la possibilità di ricostruire una patria sovrana, regista del proprio destino, delle proprie aspirazioni. Si pensi che nella grande congerie del secondo Novecento nordirlandese persero la vita più di tremila individui, quando già dal 1966 erano iniziate le spedizioni contro i cattolici allestite dalle squadre paramilitari lealiste con le seguenti, addizionali scorrerie perpetrate dalle truppe inglesi nelle città di Derry e di Belfast. In quel contesto, l’azione politica aveva poca rilevanza; l’impegno armato divenne agli occhi dei nazionalisti l’unica forma di resistenza, l’unica promessa di riscatto: effigie di libertà, vessillo inconsumabile per i popoli sottomessi a qualunque tipo di servaggio imperialistico. La guerriglia popolare fu il metodo condiviso anche da Sands; aveva diciotto anni allorché decise di fare il suo ingresso nell’Irish Republican Army, l’esercito dei volontari repubblicani che, clandestinamente, si batteva allo scopo di veder crollare il regime sorvegliato dai burattinai di Londra. Sarebbe spirato in prigione, eletto poche settimane prima al Parlamento di Westminster, stremato dai sessantasei giorni di digiuno che decise di scontare, con orgoglio e fermezza, contro la negazione dello status di prigioniero politico e la conseguenziale degradazione al rango di delinquente comune; per Bobby Sands e i nove detenuti che morirono insieme a lui, non era ammissibile che l’Inghilterra etichettasse la battaglia irlandese come un crimine o un deprecabile atto di terrorismo: “Ora ricordiamo”, sottolinea Adams, “i 40 anni dallo sciopero della fame, dalla morte di Bobby e dei suoi nove compagni. La causa per la quale sono stati imprigionati e per la quale sono morti è la causa irlandese. Si tratta della fine della partizione imposta con la forza 100 anni fa […] Le lotte carcerarie e i successi elettorali che si sono verificati hanno rappresentato un momento di svolta per la nostra lotta e per la storia irlandese moderna. L’elezione di Bobby Sands come parlamentare per il Fermanagh South Tyrone e di Kieran Doherty e Paddy Agnew al Parlamento irlandese hanno dimostrato l’errore delle affermazioni del primo ministro britannico Margaret Thatcher e di altri per cui la lotta non ha avuto alcun sostegno popolare”. Il monito rimane dunque imperituro; non smette di conservare la sua valenza profetica oltre ogni barriera ideologica, temporale. E rammenta che, laddove vi è ingiustizia, “ci saranno sempre persone coraggiose che prenderanno posizione”.
La via sociale alla repubblica
Se è assodato, come ribadisce Gerry Adams, che l’agognata fusione delle due Irlande non è soltanto una confortante utopia, occorrerebbe chiedersi quale soluzione dovrebbe essere delineata per sancire una reale, definitiva aggregazione tra due fazioni che per svariato tempo sono parse irriducibilmente incompatibili. Se è acclarato che un referendum potrebbe ratificare il ricongiungimento dell’Isola al cospetto di un’unica bandiera, risulterebbe quindi cogente riuscire a prospettare un rimedio che consolidi una riconciliazione duratura tra il consorzio cattolico, preponderante nella Repubblica d’Irlanda, e quello protestante, prevalente in Irlanda del Nord, nell’area delle Sei Contee. Erano quesiti che, già negli anni Novanta, Adams provvidenzialmente aveva posto. Quesiti i cui responsi tracciano mete interessanti, propositi che si traducono in ambizioni politiche innovative, ulteriori rispetto alle logore categorizzazioni predominanti. È appunto di netta intonazione sociale e solidaristica, quella repubblica che Adams tenta di immaginare; avversa, comunque, alle tendenze mondialiste e atomizzanti che sembrano aver completamente annichilito ogni afflato patriottico e identitario. “Non si diventa socialisti”, scrive nell’opera Per una libera Irlanda, “abbandonando il nazionalismo e il repubblicanesimo e rimpiazzandoli con vuoti slogan sinistresi […] Il repubblicanesimo è una filosofia in cui la dimensione nazionale e quella sociale si fondono insieme”; proseguendo poi: “Questa classica visione del problema contrasta con quella di coloro che contrappongono repubblicanesimo e socialismo e che spezzano l’unità del movimento per l’indipendenza nazionale dando la priorità ad obiettivi socialisti che non possono essere raggiunti fino a che non si otterrà l’autogoverno; con il rischio di non ottenere né l’indipendenza né il socialismo”. Solo secondo queste coordinate, stando a quanto segnala Gerry Adams, le differenze e le pluralità che frastagliano l’impianto civico delle due Irlande potranno essere riassestate, armonizzate in un quadro unitario e organico. Nondimeno, gli itinerari della pacificazione rifiutano di abdicare alla loro intrinseca complessità; pretendono una dedizione generalizzata, assidua. Che abbracci le controversie; che riconduca le disparità entro una realtà comunitaria, euritmica. E allora così, forse, come preannunziò Bobby Sands, vedremo finalmente sorgere la luna. Tiocfaidh ár lá, Tiocfaidh ár lá, si ripeteva tra le sbarre di Long Kesh.
Socialismo patriottico? Martirio? Indipendenza e allo stesso tempo Unione Europea? Mi sa che la confusione è grande, per lo meno abbastanza grande da evitare di farci coinvolgere in questi lambiccamenti pseudopolitici e troppo ideologici. A margine: in questi movimenti politici, come anche nel cosiddetto partito nazionale scozzese, di “tradizionalista” non c’è niente.
Pur avendo sempre avuto a cuore la causa e la prospettiva di una Irlanda unita, sono in tutto e per tutto d’accordo con il commento di Iginio. Sono lontani anni luce dalla tradizione. Forse, essendo insulari, non hanno ben capito cos’è l’UE. Viva O’Duffy e le Irish Blue Shirts.