Mi sveglio presto. Ho dormito poco e male. In un letto scomodo, che non è il mio, con lenzuola e coperte sporche ed il materasso di crine vegetale. Due stanze malmesse, con l’odore di muffa, al secondo piano d’un vecchio edificio di Borgo San Salvario. Di gente sfollata nel Monferrato, parenti d’un camerata. Non lontano da qui sono nato e vissuto fino alla guerra. Qui vicino ho frequentato tutte le scuole, dalle Elementari alla Antonio Rayneri di Corso Valentino al Regio Liceo Vittorio Alfieri di Via Giacosa.
Adesso mi devo alzare, farmi la barba, vestirmi e prepararmi per l’ultimo giorno della mia vita. Credo che sia il mio ultimo risveglio, l’ultima aria del mattino, l’ultimo sgranchirmi le braccia, le gambe, tutte le fibre del corpo, come per scrollarmi di dosso le caligini di realtà e brutti sogni. L’ultimo sorso d’acqua prima del caffè. Se si può chiamare caffè la brodaglia scura che il Duce ci ha rifilato, assieme al foro della cinghia ed a tante illusioni, scioltesi come neve al sole! Tanti sogni ai quali abbiamo voluto credere, illusi, fino al ’40-’41, alla caduta dell’Amba Alagi, poi neanche più a quelli.
La guerra sta per finire ed è giusto che io finisca con lei. Il mio unico fratello, Paolo, Tenente del III Battaglione “Lancieri di Novara”, è morto ad El Alamein all’inizio di novembre del 1942. Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Tre giorni dopo aver ricevuto il telegramma di condoglianze, i miei genitori sono morti sotto le macerie della loro casa, in via Principe Tommaso, durante il bombardamento degli Alleati su Torino, il 21 novembre. Tutto perduto, anche i libri, le fotografie, gli oggetti che legano, seppur illusoriamente, i defunti al mondo dei vivi.
Ne ho avuto del tempo per fare i preparativi e neppure per sondare a fondo, dentro di me, se esistesse un’altra via. Per tentare d’immaginarmi una uscita diversa. Per cercare di convincermi che, nonostante tutto, la vita merita, comunque, d’essere vissuta. Gli animali non si suicidano, credo. Da cinque anni, quasi, siamo in guerra. Il mondo è in guerra. Tutti hanno sofferto. Tutti si sono attaccati ancor di più alla vita, con disperata voglia di sopravvivere, quasi morbosamente. Perché costituire io l’eccezione?
All’inizio la guerra non mi era sembrata troppo dura. Ero nella Francia occupata, nel 1940. Ho anche continuato a studiare, a dare esami e mi sono laureato a Torino, nel giugno del ’42, in Lettere e Filosofia, durante una licenza. La mamma ed il babbo erano raggianti, orgogliosi. Ufficiale degli Alpini e dottore! Speravano ancora nella prossima fine delle ostilità. Facevano progetti. Il babbo andava in ufficio alla Fiat, al solito, la mamma cuciva, come sempre, per arrotondare lo stipendio e farci studiare. Dall’inizio della guerra per comprare qualcosa alla borsa nera. Dopo di allora non li rividi più. Mi rimangono dieci lettere e le poche fotografie che mi avevano dato le zie di Via Cernaia e che adesso ho loro restituito.
Per me la guerra era iniziata come Sottotenente di prima nomina della Divisione Alpina “Taurinense”. Alpino come mio padre. La mamma mi aveva confezionato tre camicie bianche di seta, con le iniziali ricamate. Anzi, la guerra non è mai veramente cominciata, per me. Mi hanno solo mandato a presidiare una zona della Francia, la Moriana, in Savoia, occupata dopo l’Armistizio del giugno 1940. Poi sono sempre stato in Francia, vicino al confine, passando ad altre unità e luoghi, sino alla decisione del Governo Badoglio di farci tornare in Italia, ad agosto del ’43, prima della disfatta dell’8 settembre. Tante ore sbrigando i doveri della caserma e dell’ufficio, ma anche leggendo, studiando, scrivendo la mia tesi di Storia Medioevale, con i pochi testi ed appunti che trovavano posto nella mia valigetta di ufficiale del Regio Esercito.
Mi sono allora, in quei giorni di totale angoscia e disfacimento, il 10 settembre, ritrovato a Torino assieme agli ultimi resti della Divisione Alpina “Alpi Graie”, già trasferita a La Spezia.
In tutta la guerra non ho mai sparato un colpo. E poche esercitazioni. Eravamo troppo poveri, sia per fare la guerra, sia per prepararci. Le pallottole erano contate! Fino ad allora non avevo mai fatto molte scelte. Mio padre, la volontà del Duce, poi la vita e le sventure, personali e della patria, avevano sempre deciso per me. Quel 10 settembre ero allora scappato a casa di conoscenti, smarrito, cercando disperatamente un orientamento per continuare. Non avevo più nulla, in tasca poche centinaia di lire, e non volevo mettere nessuno nei guai per colpa mia.
Il 17 settembre la radio annunciò la costituzione di un nuovo Stato italiano. Il giorno dopo mi presentai al Distretto, di lì mi mandarono al Comando della “Taurinense”, dove non sapevano che farsene di me, in tutta quella gran confusione, quindi alla Prefettura, in Piazza Castello. Mi presero all’Ufficio Stampa, per via della mia laurea fresca e per merito dei miei morti. Per redigere avvisi, smistare corrispondenza e scartoffie. Ma con diritto alla tessera annonaria e ad uno stipendio.
Dalla Prefettura sono passato ad un altro ufficio, poi al Comando della nuova Divisione Alpina Monterosa, a Pavia, quindi son tornato a Torino, finendo, su mia richiesta, alla Brigata Nera “Ather Capelli”, nel luglio dell’anno scorso. Un nostro martire. Capelli, giornalista, direttore della “Gazzetta del Popolo”, assassinato da ignobili terroristi dei GAP mentre apriva la porta di casa, sparandogli alle spalle, il 31 marzo 1944. All’Ufficio Assistenza, Stampa e Propaganda della Brigata, presso la Caserma Cernaia. Di fronte, sotto i portici del N. 26, abitano due mie zie nubili, Caterina e Carlotta, sorelle di mio padre.
Noi, i Brigatisti Neri, con le mostrine con i fasci, guardati con odio e sospetto, da quasi tutti. I colpevoli di far continuare una guerra perduta, tra le bombe degli Alleati, i pidocchi a far festa e la fame che ti scava un buco al posto dello stomaco, ogni giorno più grande.
Io, che sono figlio di buoni e modesti cittadini che lavoravano e rispettavano tutte le leggi, senza la cimice all’occhiello, che non ho mai amato essere balilla ed avanguardista, che non ho mai sparato un colpo in tutta la guerra, che non mi sono mai stordito con la retorica dell’eroismo e della “bella morte”, che pure ho diffuso, lo ammetto, ma non cantato. Io, che non ho mai neppure preso parte ad un rastrellamento, ad un interrogatorio, che ho visto la morte e la sofferenza da vicino, ma senza mai parteciparvi direttamente, mi appresto a morire oggi con la camicia nera, come un irriducibile, come uno di quei fiorentini che dai tetti e dalle finestre hanno bloccato per giorni, lo scorso agosto, l’avanzata del nemico invasore e delle bande dei ribelli al seguito.
Mi preparo a morire sparando, dopo aver per lo più scritto, per tutta la guerra e la vita della Repubblica. Scherzo bizzarro del destino! Per una causa che sapevo perduta in partenza. Morirò senza essere pianto da nessuno e non so, in questo momento, se ciò sia una consolazione od un’ulteriore condanna. Neppure si ricorderanno di me e di noi. I sopravvissuti, vincitori e vinti, vorranno soprattutto cercare di dimenticare quest’incubo durato cinque anni.
Fa già caldo. Le ragazze vestiranno i loro abiti leggeri, cammineranno civettuole, ridando un senso alla vita, offrendosi agli occhi golosi, torneranno rapidamente floride, in carne, ricominceranno a ballare, ad amoreggiare, a vivere come per recuperare l’infame tempo perduto. I ragazzi faran loro la corte, senza più la sirena dell’allarme aereo, l’oscuramento, le bombe, il crepitio della contraerea, il coprifuoco, il razionamento, la paura.
Io non ci sarò.
Davanti al piccolo specchio, un po’ sporco e scheggiato, con la poca luce della finestra, senza azzardarmi ad alzare la tendina, estraggo da un vecchio astuccio liso, di cuoio, una crema da barba Palmolive, il pennello, la macchinetta per la barba in ottone, le lamette nuove, un flaconcino d’acqua di colonia.
Il tubetto verde e rosso di crema da barba è di prima della guerra e me l’ha regalato Edoardo, quando, assieme, abbiamo preso la decisione di sparare, possibilmente fino all’ultima cartuccia, e morire come “franchi tiratori”. Assieme ad altri quattrocento. Volontariamente. Liberamente.
Dopo cinque anni al servizio della patria, e tutta la mia famiglia uccisa, ci mancherebbe solo di essere ammazzato come un cane o, peggio ancora, di venire giudicato e condannato, in una parodia di processo, da quelli che non ho mai visto in faccia da vivi, che ci sparavano alla schiena, di notte o sotto un portone, al buio, sognando d’instaurare una repubblica dei soviet. Adesso si sentiranno vincitori! I ribelli della prima ora sono degni di qualche rispetto, coloro che rimasero fedeli al Re, pur infido, ma non i corvi appollaiati sui carri-vivande delle retrovie alleate.
– Me ne sono rimasti due, non mi serviranno più. Almeno facciamoci un’ultima barba per morire belli! – mi aveva detto, con tono deciso e quasi compiaciuto, Edoardo, tendendomi il tubetto di crema.
Sì, certo, morire, come i camerati di Firenze. Uomini e donne, tante donne, che hanno seguito l’istinto disperato di lottare per le cose nelle quali credevano: la terra, la casa, la famiglia, l’idea che non tutto si compra o si vende, il sentimento della fedeltà e la vergogna del tradimento.
Morire con le armi in pugno, che io non ho mai usato prima. Per dare alla morte un senso estetico, oltre che etico, come per i samurai del Giappone che fu. Una morte che riscatti anche il mio “far la guerra” negli uffici. È in fondo da allora che ho scelto come morire, se prima non mi avesse sparato alle spalle un “gappista” in bicicletta. Senza salutare nessuno.
M’insapono la faccia lentamente, con cura. Sono deciso, ma non ho fretta di morire. La sacca è già pronta, con due borracce d’acqua, un grosso pane di farina scadente, una camicia nera pulita, avvolta in un giornale. È tutto quello che mi resta al mondo. Ho regalato i libri che mi rimanevano, dato alle zie le fotografie ed i pochi soldi che non voglio lasciare a nessun partigiano fucilatore. Anche la fotografia di Maria Luisa, la fidanza di Via Baretti, la maestrina bionda che avevo prima di partire per la Francia occupata e che ha deciso di non aspettare il mio ritorno.
Uscirò dal portone in abiti borghesi e con un documento falso, quello che ci hanno dato ieri mattina, quando abbiamo preso congedo e salutato il nostro Comandante. Sono diventato Giuseppe Demaria fu Bartolomeo, nato a Torino, impiegato. Certo, la camicia nera, in caso di perquisizione, anche senza mostrine e gradi, segnerebbe subito la mia condanna. Ma è diventato un segno d’identità imprescindibile. Non posso morire in abiti civili come un ribelle.
Spero di poter arrivare al campanile senza intoppi, senza incontrare nessuno. È vicino. Lì ho nascosto una sacca con il fucile, le munizioni, la pistola, un binocolo, dietro l’organo della chiesa, una settimana fa, con la complicità del vecchio sagrestano, Pinot, che si ricordava di me, di quando frequentavo l’oratorio. Pinot, naturalmente, ignora i miei veri propositi. Per convincerlo, oltre ai biglietti da cento lire, l’assicurazione che quello lo facevo solo per potermi salvare. Oggi la falce della morte, ben affilata, scorrerà a lungo, colpendo e recidendo senza indugi. Senza molte distinzioni, iniqua. Per intanto recido i peli della mia barba, facendo molta attenzione a non procurarmi tagli. Devo essere bello per l’appuntamento fatale con la Signora della Falce! Come il volto di Dorian Gray, incorrotto, mentre il suo ritratto registra la decadenza del corpo, prima di diventare specchio dell’anima. Quale anima?
Ripenso alle tante frasi di propaganda che ho scritto o riciclato, alle strofette e parole d’ordine che mi risuonano in testa: “Morire per vivere è meglio che vivere per morire”, “All’ombra dei nostri gagliardetti è bello vivere, ma se sarà necessario sarà ancor più bello morire”, “Vivere, non sopravvivere”, “Sposi della vita, amanti della morte”, “la morte non ci fa paura: ci si fidanza e ci si fa l’amor”, noi “fidanzati” ed “avanguardia” di morte, noi che corriamo il “Palio della Morte”, noi che facciamo la corte alla “Signora Morte” che “fa la civetta in mezzo alla battaglia” e “si fa baciare solo dai soldati”…
Mi risciacquo a lungo. Mi aspergo la faccia appena rasata con l’acqua di colonia e provo una sensazione di benessere. Metto la caffettiera sul fornello, mentre mi vesto. Non ho fame, sbocconcello un po’ di pane raffermo. Ho dimenticato il sapore del caffè buono. Controllo il contenuto della piccola sacca, il documento falso, tendo l’orecchio per percepire eventuali rumori sul pianerottolo ed esco. Nessuno per le scale, apro il portone e mi ritrovo nella via deserta. Aleggia su questa parte di Torino una calma strana, un silenzio angosciante e plumbeo, che durerà poco, lo so. Il sole è ancora molto basso e fa fresco.
Oggi, sabato 28 aprile, sarà un “dies irae”, con tanti morti ammazzati, lo presento. Qualcuno con la propria mano. I nostri son partiti nella notte, una colonna lunga che da Piazza Castello si è incamminata verso est, per Corso Giulio Cesare, verso la Lombardia. Per combattere l’ultima battaglia o, più probabilmente, per arrendersi agli Alleati. Ieri eravamo ancora in trentamila a difendere Torino. Poi solo la voglia di fuggire, come armenti verso il dirupo….
Siamo rimasti noi, i “franchi tiratori”, qualche ufficiale come me, i feriti, quelli che non hanno voluto abbandonare le famiglie o potuto portarle con sé, quelli che credono di non avere colpe e di non rischiare, i pazzi, i filosofi, i nascosti nel solaio, i raziocinanti ad oltranza, qualche doppiogiochista, ed i pochi illusi che “tra italiani ci si mette alla fine sempre d’accordo”.
Per noi ‘fascisti’ non ci sarà nessuna pietà, ce l’hanno detto, fatto sapere in tutti i modi. Non ci saranno gesti cavallereschi, nessuna umana considerazione per gli sconfitti, giovani o vecchi, ragazzini o reduci o feriti. Bandita ogni grandezza d’animo. Troppo odio è stato sparso. Abbiamo fatto molti errori. Scorrerà molto sangue. I cadaveri saranno vilipesi, le nostre donne violentate, come fecero i marocchini di Juin, spero non assassinate. La sofferenza sarà, in ogni caso, enorme.
Volevamo una pacifica trasmissione dei poteri alle bande partigiane, senza un inutile spargimento di sangue. Il CLNAI non l’ha accettato. I tedeschi hanno detto, lasciandoci sbigottiti e furenti, che per loro la guerra è finita, che i loro accordi con gli Alleati ed i partigiani garantivano un transito tranquillo verso la Germania. Così la resistenza vuole legittimare a posteriori, con un bagno di sangue, contro ogni norma di civiltà, quello che mai ha ottenuto sul campo.
È da ieri che i “franchi tiratori” del nostro Comandante sono in azione. A me è toccato oggi, ad altri domani. Poi si vedrà. Chi sopravvive spara fino all’ultimo colpo, poi, se intravede una possibilità di fuga, la può naturalmente tentare. Ma la fuga è un’illusione. Catturati si viene fucilati sul posto. Se va bene. Io non sono più credente, da anni. Non ho problemi etico-religiosi ad affrontare serenamente il suicidio. Spero con dignità, senza che la mano mi tremi, senza errori.
Anch’io mi auguro di poter far scorrere del sangue, per la prima volta in vita mia. Sangue colpevole. I frutti maledetti d’una guerra fratricida che noi non abbiamo voluto. Sparerò, vestendo la mia uniforme, e forse ucciderò, secondo le regole della guerra, perché persino la guerra deve rispettare qualcosa delle norme e dell’umanità. Ancor di più quand’essa sta per finire.
Ho scelto io la mia postazione, in base a svariati elementi. Un punto strategico, un campanile che controlla l’incrocio di Corso Vittorio Emanuele e di Via Madama Cristina. È un campanile alto, che domina un’ampia porzione di territorio cittadino. Un luogo a me ben noto. Il posto ideale per un buon lavoro. Se non mi fermano prima di arrivarci o se dei partigiani non hanno pensato a sorvegliare l’accesso della chiesa di San Francesco di Sales, che conosco benissimo. Cammino rapidamente, senza incrociare nessuno, ma senza guardarmi attorno. Poche ombre lontane, gente che cammina in fretta, la testa bassa. In pochi minuti sono davanti alla chiesa. Salgo i gradini, mentre sento il cuore pulsare forte. Il portone è socchiuso, per la prima Messa. In silenzio entro nella penombra della navata centrale. Prendo posto su uno degli ultimi banchi e m’inginocchio per cercare di passare inosservato.
Seguono la Messa non più di una ventina di persone, donne in maggioranza. Quando il sacerdote darà l”Ite, Missa est” ne approfitterò per salire la scala che porta all’organo, sopra l’ingresso principale, sulla controfacciata, e da lì, una volta raccolto il sacco con fucile, pistola e munizioni, sul campanile. Prima si avvertirebbe il rumore dei miei passi sulla scala di legno.
Ho visto dove Pinot ripone la chiave d’accesso alla scala del campanile. Se ho studiato bene la logistica e la tempistica non dovrebbero esserci inconvenienti. Sono un ufficiale, perbacco! Mentre attendo la fine della Messa ripenso a tutte le volte che mio padre mi ci ha accompagnato da bambino, la domenica alle undici, con mio fratello Paolo, prima di andare a comprare le paste dolci. Mi piaceva la musica dell’organo, dolcezza e grido. Mio padre e mia madre credevano nella bontà civile della religione, non tanto nelle Verità della Fede. Come tanti delle mie parti, senza grandi trasporti, senza slanci devozionali, più per conformismo che per convinzione profonda. Come per il regime. C’era, faceva cose buone, era l’autorità. Un’autorità che costruiva, modernizzava, manteneva l’ordine e la sicurezza, educava al culto della patria e del dovere. Non tutto era condivisibile, ma si discuteva. Egli vedeva il lato patriottico, veramente unificatore della nazione, il mezzo per dare al Paese una disciplina che ne facesse un blocco d’un ideale di prosperità e grandezza. E appariva ragionevole, quindi, sacrificare un po’ di libertà. Mio padre amava la famiglia, il lavoro alla FIAT, l’Italia, le montagne, il suo cappello da Alpino, aveva conosciuto l’inferno del Monte Grappa e del Tonale, senza concessioni alla retorica sentimental-guerriera, il dolore delle ferite. Zoppicava un po’ da allora e, nei giorni più umidi, si vedeva che la gamba colpita nel ’17, rimasta più grossa dell’altra, gli faceva male. Lui non si lamentava, ma noi lo capivamo dall’ espressione del volto.
Una bella foto di mio padre, con i baffoni, la vecchia giacca grigioverde con i gradi da Sottufficiale, col collo alto chiuso e la Croce al Merito di Guerra, incorniciata in argento, mi ha accompagnato fino alla laurea e si è perduta anch’essa nel bombardamento. Mio padre aveva un animo candido, semplice e positivo, allergico alla facile enfasi dei sacri valori, leggeva i romanzi popolari degli scrittori francesi dell’Ottocento, da Dumas a Sue, ma anche Hugo, Balzac, Fogazzaro, Salgari. Pure mia madre leggeva molto, inclinando per le storie gotiche e scabrose di Carolina Invernizio, per i melodrammoni sentimentali di Salvator Gotta e pure per quelle storie dense di erotismo estetizzante, di stampo dannunziano, di Guido da Verona, che trasportavano la lettrice in atmosfere esotiche e peccaminose! Quando non cuciva e sbrigava le faccende di casa. Al Lingotto, mio padre andava con una camicia fresca e ben stirata tutti i giorni, il nodo scappino impeccabile, la piega dei pantaloni sempre perfetta. Il pomeriggio della domenica considerava sacra la partita a bocce.
Abitavamo qui vicino, in un appartamento piccolo-borghese, ingresso, due camere da letto, cucina e sala da pranzo, nulla di superfluo, il necessario decoroso ed austero di chi è convinto che con lo studio, l’applicazione, la volontà, avrai una vita dignitosa, il dovuto rispetto e potrai ascendere socialmente. La radio e le tavole di Beltrame de “La Domenica del Corriere” ci portavano il mondo a casa, plasmavano la nostra immaginazione.
A me piaceva quella chiesa un po’ strana, con il campanile in cotto, appuntito, che sovrasta la facciata, che dalla stessa ha origine e poi si sviluppa come per gradoni successivi, con una sezione, quadrata, a quadrifore ed una superiore, ottagonale, a bifore. Più tardi avrei appreso che venne costruita, in stile romanico-lombardo, per desiderio di Don Bosco, che vi celebrò la prima Messa, verso il 1880. San Salvario era ancora un quartiere di periferia, di gente modesta.
Frequentai pure il contiguo Oratorio di San Giovanni, almeno fino a quando, verso i sedici anni, presi a congetturare che Gesù non era né Dio incarnato, né un rivoluzionario. Solo un riformatore religioso nel suo ambito culturale. Poi San Paolo ne avrebbe fatto Dio, il fondatore di una nuova, bizzarra, oscura religione che saccheggiava e frullava un po’ delle fedi esistenti, monoteiste e pagane, e del coevo pensiero filosofico. Per renderla più attraente per i diseredati e gli schiavi – oltre i cento misteri, poi diventati dogmi, di ardua definizione e di ancor peggiore comprensione, e la resurrezione della carne – Paolo di Tarso c’infilò un discorsino, facile, facile contro i ricchi ed i potenti. Lo stesso che da milleseicento anni viene rinfacciato al cristianesimo, nel frattempo, da Teodosio in poi, divenuto un potere dominante.
………………………………………………………… II …………………………………………………………….
Finisce la Messa, mi nascondo dietro un pilastro e poi salgo con circospezione la scala che conduce all’organo. Non vedo Pinot. Finita la Messa il prete ha lasciato subito la chiesa. Trovo l’involto lasciato la settimana scorsa ed anche la grossa chiave della porta d’accesso al campanile. Un’altra rampa. La faccio girare lentamente nella toppa. Non appare nessuno, per fortuna. Entro e richiudo la porta, chiudendola a chiave. È l’unico accesso al campanile, ma certo non costituisce una gran difesa.
Mi trovo in un locale quadrato, con una specie di balconata coperta e quadrifore ad ogni lato, una vista ottima anche senza trasferirmi al piano superiore. Contro una parete scorgo un tavolo fratino, lungo e certo pesante, in legno massiccio. Lo spingo con le mani ed il corpo, un po’ alla volta, contro la porta. Devo rendere più difficile l’ingresso, se cercheranno di prendermi. Accatasto sotto il tavolo degli oggetti che trovo qui e là. Con un po’ di fortuna le colonnine delle finestre mi proteggeranno dai colpi di fucile. Non ci sono edifici alti prossimi. Ma devo affacciarmi il meno possibile. Spero che Pinot non abbia dei problemi. I salesiani comunque lo proteggeranno. Diranno che non mi conoscevano e finirà lì. Un morto in più, un morto in meno, di questi giorni non farà molta differenza. Nessuno a Torino alza un dito contro i salesiani, neppure i comunisti.
Sul pavimento sciolgo i lacci ed apro il sacco di tela grezza per avere tutto a portata di mano. Per primo ne estraggo il mio Carcano 91/38. Non è un’arma moderna, ma assai precisa. Non me ne farei nulla di una mitragliatrice, che avrebbe comportato un gran volume di munizioni (quasi introvabili in quantità, perché i tedeschi si prendono quasi tutta la produzione) ed ha una gittata utile assai inferiore. Con il 91 posso centrare un bersaglio anche a 6-700 metri. Ho due scatole di munizioni 6,5 mm. Poi un binocolo ed una pistola Beretta M 34, con due caricatori da sette colpi, 9 mm. corto. È un’arma semiautomatica leggera, la Beretta, che, tranne questi ultimi giorni, è stata sempre a contatto con il mio corpo, ma con un tiro utile limitato. Servirà per l’ultimo atto, per spararmi in bocca, la canna rivolta verso il cervello. Peccato, sporcherò un po’ e Pinot dovrà ripulire…
Nel grosso sacco ho anche messo due scatolette di “Corned Beef” americano, immagino date dagli Alleati ai partigiani e poi finite a noi delle Brigate, un pacchetto di sigarette Nazionali, una bottiglia di vino dolcetto, delle caramelle. Avrà Paolo avuto tanto ben di dio prima di morire, laggiù nella sabbia del deserto? Chissà se quel giorno ha capito che stava per morire, chissà se ha sofferto e per quanto, una volta colpito? Estraggo pure la camicia e la indosso. Magari mi centrano tra dieci minuti e devo morire in uniforme. Non posso rimanere ferito. Sarei seviziato per ore prima di ammazzarmi. Accendo una sigaretta e tendo l’orecchio ai suoni della città. Una Torino luminosa, ma come livida, giace davanti ai miei occhi, dalla collina verde alle montagne ancora orlate di bianco; un po’ di bruma, una sorte d’immensa morte traslucida che avvolge le cose. Lontano avverto un crepitio intermittente di mitraglia. Mi ricordo di una frase messa in bocca ad un testimone della Peste Nera, alla metà del Trecento: “Le campane non suonavano più e nessuno piangeva. L’unica cosa che si faceva era aspettare la morte”.
Infilo sei cartucce nel caricatore, imbraccio il fucile, guardo la città attorno a me, da ogni lato. Il sole è sorto da più di un’ora. Mi viene voglia di guardare più lontano e salgo sulla parte superiore del campanile. C’è un po’ di bruma, ma si vedono, ad ovest, le montagne, la piramide del Monviso, il Rocciamelone, più vicino il Musinè con la grande croce, il Gran Paradiso, il Bianco. Conosco ed amo le mie montagne e mi fa piacere morire avendole di fronte.
Per Corso Vittorio Emanuele passa un’automobile a rapida andatura. Non sparerò a casaccio, non voglio uccidere innocenti. Non ho fretta di morire, ho tutta la giornata davanti a me.
Mi ricordo di quando mio padre accompagnò Paolo e me a scalare il Rocciamelone. Era il luglio 1930. A Susa in treno, poi a scarpinare verso settentrione, oltre Urbiano una bella mulattiera nel verde, quindi per pratoni, baite di margari, mucche al pascolo, fino al Rifugio Reposa, in quattro ore, ad oltre 2.000 metri. Una sosta per rifocillarci, altre due ore di sentieri ripidi e, finalmente, al Rifugio Cà d’Asti, a quota 2.800, dove passammo la notte, dopo aver divorato un gran piatto di pastasciutta fumante con salsa di pomodoro.
Il mattino dopo la gamba faceva molto male a mio padre, si era gonfiata, e ci dovette aspettare lì, umiliato ed impotente, lasciando a noi ragazzi l’impresa, e la responsabilità, di affrontare gli ultimi difficili 6-700 metri, per pendii franosi, petraie infide, un cammino stretto tra rocce impervie, fino alla vetta con la statua della Madonna, a oltre 3.500 metri. Per secoli il Rocciamelone fu ritenuta la cima più alta di tutte le Alpi.
Un posto meraviglioso, quel giorno senza nubi, un panorama splendido, a perdita d’occhio, sulle montagne d’Italia e di Francia. Una sensazione d’infinitamente piccolo e di smisuratamente grande, assieme. Lì decisi che anch’io sarei diventato Alpino, come mio padre. Che per tornare a Susa con la sua gamba gonfia soffrì le pene dell’inferno e poi, a casa, venne pure sgridato dalla mamma! Povero papà, sopravvissuto agli obici austriaci ed ammazzato dalle macerie durante uno stupido bombardamento terrorista della RAF, assieme alla mamma. Quella notte anche i Teatri Chiarella e Maffei, con le ballerine del variété e gli spettatori dentro, vennero distrutti. Molti morti. L’allarme giunse tardi, al solito.
Invece io morirò con la camicia nera, che a mio padre so che non piaceva, anche se non faceva mai commenti sul tema. La vita quasi sempre decide per noi. Forse, avessi io incontrato altre persone in quei giorni dopo l’8 settembre, se avessero usato parole suadenti, fossero state persone stimabili e convincenti, chissà, forse avrei dimenticato i miei morti e passato dei mesi su quelle montagne che vedo ora illuminate dal sole. Ma in fondo non lo credo. Pensando di soffrire e, forse, combattere per la libertà e la rinascita d’una diversa Italia, ed adesso starei arrivando a Torino da conquistatore. Ma in fondo non lo credo. Io ho scelto l’onore, ho deciso di pagare il conto per la storia, per il senso del dovere e della coerenza etica, anche per le nostre colpe di italiani in una guerra sbagliata, come uno spartano più che un ateniese.
Solo sul campanile.
Non ho rimpianti. Non ci sono parti giuste e parti veramente sbagliate, solo la parte di chi vince e quella di chi perde. Nelle guerre civili la teppa sempre emerge e trova i suoi spazi, come negarlo, anche dalla nostra parte, ma i “gappisti” che ci sparavano alle spalle al buio, o mettevano una bomba e scappavano, solo preoccupati di far scattare il meccanismo della rappresaglia e così allargare il fosso tra regolari e bande, sono dei miserabili.
Spero di potere e sapere morire bene, con lo stile d’un filosofo stoico, non ho obiettivi o messaggi finali, non lascio memoriali, neppure saluti. Morirò in una chiesa, forse un prete salesiano mi concederà pure la grazia d’una assoluzione finale. Passano i minuti. Sento uno strepito, uno stridire di freni, un vociare confuso dalla parte di Via Madama Cristina. Una 1100 si è fermata e ne discendono uomini armati. Li vedo oltre il tetto del collegio. Due sono entrati in un portone. Due, con il mitra in mano spianato, attendono in strada. Pongo mano al binocolo. Sono certamente partigiani. Sono venuti a prendere qualcuno. Mi preparo a sparare. Prendo la mira.
Il primo tiro va a vuoto, ma con il secondo abbatto un partigiano. L’altro si rifugia dietro l’auto ferma. I suoi due compagni, che hanno catturato un anziano dai capelli grigi, si affacciano sul portone, ma hanno sentito il rumore degli spari e tornano indietro, con l’uomo catturato. Sono dubbiosi sul da farsi, credo. Non penso che mi abbiano individuato. Osservo senza sporgermi. Il partigiano dietro l’auto, rifletto, deve essere incerto se rimanere al coperto o prestare soccorso al compagno teso sulla via. Grida ad un compagno rientrato di aiutarlo a sollevare il ferito. Sento la voce:
– Aiutami, Gino, a caricare Mario, è ferito!
Gino ha qualche dubbio, ha evidentemente timore di esporsi. Si decide alla fine, dandomi la possibilità di sparare altri tre colpi in rapida successione verso i due uomini. Il primo va a vuoto, ma con il secondo ne centro uno. Cade bestemmiando. Adesso due partigiani sono distesi in terra, uno immobile, forse morto, l’altro, ferito, impreca, chiede aiuto, grida:
– Repubblichino bastardo, lurido figlio di puttana. Adesso ti facciamo venire fuori e ti ammazziamo!
Taccio, ovviamente, soddisfatto ed allo stesso tempo intimorito dalla situazione. Ricarico il fucile e non sparo sui feriti. Bevo un sorso d’acqua. Passano alcuni minuti. Poi sento un colpo di pistola, il portone si apre ed il corpo dell’uomo che era stato catturato viene anch’esso buttato in strada. La rappresaglia è stata immediata. Ho subito fallito nel mio proposito di salvare qualcuno della mia parte. Sono emozionato. Devo eliminare i due partigiani prima che giungano rinforzi. Non posso sbagliare. Dovranno pur uscire per non lasciare i due compagni in strada. Altri minuti, un’eternità. Il cuore pulsa forte. Di colpo vedo aprirsi, un’altra volta, il portone ed i due partigiani escono sparando all’impazzata con i mitra. Devono avermi individuato. Quando la raffica cessa, sparo a mia volta, ma credo senza prenderli.
Stanno caricando adesso i corpi dei compagni nell’auto. Manovra complicata. Forse uno dei due abbattuti è morto o svenuto. Posso sparare tranquillo. I colpi del mio 91 risuonano sulla carrozzeria dell’auto. Sento gridare. Devo averne colpito un altro. Comunque, il partigiano si mette al volante ed alla fine riesce a ripartire. Col binocolo vedo il cadavere del “fascista” sul marciapiede, bocconi, e due pozze di sangue.
Mi siedo sul pavimento, un po’ stordito, sbocconcello del pane. Accendo una sigaretta. Il mio battesimo del fuoco. Pensieri disordinati si affacciano alla mente. Chi sarà il “fascista” morto, sul marciapiede? Un delatore, un testimone scomodo, oggetto d’una vendetta? Chissà.
Il fiume della vita scorre dalla sorgente alla foce, sempre, dalla nascita alla morte, ma la battaglia ingaggiata dalla morte contro i vivi accorcia brutalmente il transito, durante la guerra. Senza “Ars bene moriendi” sottomano, senza soccorsi spirituali, con il dovere antico della vendetta che torna ad essere impulso essenziale e dominante. Un “memento mori” che s’incarna ogni giorno in una “Danza Macabra” tanto reiterata, quanto, alla fine, ossessivamente banale. Un “Trionfo della Morte” spogliato d’ogni apparato consolatorio. Vite recise e buttate, spesso senza affetti prossimi, senza appigli illusori, senza viatico di sorta, come il cadavere del “fascista” sconosciuto di Via Madama Cristina, che sarà già cosparso di formiche e di mosche.
Ripenso, tra echi di spari lontani, all’Huizinga de ‘L’ Autunno del Medioevo’, un testo che ho molto amato, anche se il mio professore di Storia Medioevale m’invitava a considerarlo più alta letteratura che non storia documentata. Quel tempo, alla fine dell’Età Media ed all’inizio del Rinascimento, quando l’uomo comincerebbe, secondo lo storico olandese, a non vedere più la morte come un momento sereno verso la salvezza spirituale, ma come un crudo destino, una barriera inesorabile ed invalicabile che distrugge i progetti, le virtù, le capacità, l’azione. La meta ultraterrena diventò, allora, evanescente, di difficile lettura, escatologica, patrimonio di fedi ben salde o di rivelazioni iniziatiche, mentre il cadavere e la putrefazione si convertivano quasi nell’unica misura comprensibile, in quanto verificabile, del corpo caduco. Carne fragile ed immonda, misera prigione terrena, non ideale cenotafio di ascesi e beatitudini dell’anima, non corpo sacro di Lohengrin e di cavalieri del cigno.
Bussano alla porta che ho chiuso a chiave.
– Andate via! Se qualcuno resta lì l’ammazzo! – urlo, sperando di essere convincente.
Per Corso Vittorio Emanuele passa un carretto a cavallo con un drappo bianco e con dei cadaveri accatastati. Sono due preti. Vedono il corpo per terra e si fermano, per aggiungerlo al mucchio. Mi ricorda quella bella incisione di Gustave Doré, “La Morte siede sul Mondo”.
Oggi non è giornata di eroismi, di grandi gesta, di epiche tenzoni. Oggi onore, gloria, dovere, gli attributi degli eroi omerici, degli “aristoi”, i migliori, sembrano concetti astratti, di quando si poteva ragionare pacatamente su di essi, di quando il destino di Achille – una vita fulgida e breve, una morte sul campo di battaglia, con le armi ben alte – pareva riassumere gli aneliti della mia generazione, educata ai miti ed alla retorica: fede, forza, grandezza etica, sprezzo per il pericolo e per la morte. Non ci saranno eroi, solo assassini o giustizieri e morti ammazzati. Oggi noi con la camicia nera saremo tutti bottino di guerra, vivi e morti, come Andromaca, vedova di Ettore, per Neottolemo, figlio di Achille. Molti saremo immolati come Polissena, figlia di Priamo, sulla tomba d’Achille, esaudendo il figlio il desiderio dell’eroe acheo morente.
Saremo i vinti, i cattivi, gli sgherri dei tiranni, l’incarnazione d’ogni crudeltà e perfidia, gli ingredienti d’un lavacro forse inevitabile. Il sacrificio del sangue sconfitto per consentire l’alba d’una vita nuova. Fra qualche anno, forse, un papà racconterà a suo figlio bambino, additando questo luogo: “Al tempo della guerra, quando stava terminando, un uomo sconosciuto salì sul campanile e sparò per una giornata intera, finché riuscirono a colpirlo e, finalmente, giunse per tutti la pace”. Al bambino sembrerà, naturalmente, quella del soldato sul campanile, la storia d’un passato remotissimo, leggendario. Qualcun altro forse dirà del fantasma del cecchino, che … nelle notti di luna piena si aggira per le scale del campanile, tra rintocchi lugubri di campane a morto!
Scorre il tempo. Adesso sparano contro la finestra e le campane, i colpi risuonano acuti, un crepitio assordante. Con la coda dell’occhio, la schiena contro il muro, al riparo, osservo un autocarro fermo all’angolo di Via Madama Cristina e di Corso Vittorio Emanuele. Facendosi scudo del cassone, dei partigiani stanno sparando verso di me, con i fucili. Rimango quieto, accovacciato. Magari s’illuderanno d’avermi colpito ed andranno altrove. Non è ancora giunta la mia ora.
Ho ancora del tempo, sento stranamente, per l’addio alla vita. Io, campione anonimo d’una fede non profonda, ma che non transige all’ora del redde rationem, ho ancora pallottole nella giberna. Il mio beau geste (rifiuto di compromessi con la coscienza) sarà del tutto intimo, spero senza testimoni e spettatori. Non voglio convertirmi in una sorta di eroe, che non sono, o che mi qualcuno mi ricordi come tale. Le moire continuino ancora per un po’ a tessere e svolgere il filo del mio fato. Per i Campi Elisi, la bella campagna posta sul limite occidentale della Terra, dove vivono felici gli uomini valorosi, dove spira uno zefiro leggero che procura frescura e refrigerio, ancora ha da scorrere un po’ di sabbia!
Piovono in quantità i proiettili, scheggiano le colonnine delle finestre, cadono di rimbalzo attorno a me. Alla fine, riprende la marcia l’automezzo, con il suo carico umano, immagino richiamato altrove dalle esigenze di uno pseudo-esercito scalcagnato e disordinato di civili che sta gradualmente occupando Torino, mentre l’esercito vero degli Alleati, appresa la lezione di Firenze, certamente aspetta che gli italiani abbiano prima saldato i conti tra di loro e fare così un ingresso festoso, senza correre rischi. Passa più di un’ora, mangio qualcosa, bevo un sorso di vino. Un’altra sigaretta. Una calma satura d’aspettativa insieme angosciosa e paradossalmente con una sua serenità. Sento di aver, comunque, fatto la mia parte. Persino mi appisolo per qualche minuto.
Mi svegliano voci vicine. Congetturo che dei partigiani siano venuti ad appurare se sono veramente stato colpito. Tre uomini col fazzoletto rosso al collo che osservano il campanile dal piazzale antistante la chiesa. Oggi non ci sono vittime innocenti, persecutori, ma solo uomini persuasi della colpevolezza delle vittime. La violenza ha una sua sinistra sacralità.
Gli uomini sono fermi. Devono essere dei pivelli ad offrirsi così indifesi. Afferro il fucile carico, prendo la mira e mi vedono, ma io sono rapido e ne abbatto due, mentre il terzo fugge urlando, imprecando. Non credo di averli uccisi, sì feriti. È finita la siesta, si stringe il cerchio. Arriverà presto un attacco in forze.
Nella mitologia greca, Artemide, dea vendicatrice, dea della fertilità e della morte, scocca le sue frecce fatali, è la signora della morte improvvisa. Non è forse la morte, per tutte le religioni, introdotta nel mondo dalla donna, padrona della vita? Non è forse femmina la morte? Ma oggi sono io, travestito da angelo sterminatore, da Artemide, da Parca, a portare la morte tra i partigiani. Mi causa una sorta di perfido piacere rovinare la loro festa. Sono vissuti fino quasi alla fine per ricevere del piombo da uno che mai aveva sparato a nessuno!
Il tempo passa, posso ancora mangiare, bere, fumare, guardare l’orizzonte con le montagne, pensare ad una prostituta francese, Mireille, che ho frequentato abbastanza a lungo, sentirmi vivo. Accetto la mia prossima partenza. Partirò a mani vuote, come tutti del resto, ma non vinto, non piegato, non umiliato, senza svestire l’uniforme, quella camicia nera che sento completamente mia solo oggi. La guerra esige sacrifici umani. Dall’inizio della storia del mondo. Io le offro le mie vittime, la coppa colma della vita con tutti i suoi giorni, buoni e cattivi, e, alla fine, la mia stessa esistenza, per pareggiare in qualche modo i conti.
Oggi devo sacrificare alla dea Kali, una delle lingue fiammeggianti del dio del fuoco. Mandata sulla Terra per sconfiggere i demoni, Kali cominciò ad uccidere pure gli esseri umani, convertendosi nell’elemento distruttore, assieme a Brahma, il creatore, e Vishnu, il preservatore. Ma anche nella Madre del Mondo. Per gli induisti la morte non significa il passaggio alla non-esistenza, ma solo una trasformazione, il transito ad una nuova forma di vita. Tutto ciò che viene distrutto rende possibile che gli esseri attraversino fasi nuove di esistenza.
“Il distruttore è chi crea di nuovo”, ho letto un pomeriggio in un libro di storia delle religioni, preso a prestito nella biblioteca comunale della cittadina francese occupata, dopo essere stato un’ora con Mireille, che riusciva con la sua sensualità accesa, nervosa, a farmi sentire se non veramente felice, soddisfatto, come chi ha adempiuto, pur frettolosamente, ai doveri verso la vita.
Un paradosso, naturalmente, od una ovvietà, come paradossali od assurde sono le religioni. Perché mai noi, senza colpa condannati alla dannazione, dovremmo essere stati salvati dalla crocifissione di Cristo? Pure una mia personalissima interpretazione di eros e thanatos, pulsione di vita, pulsione di morte. Adesso, comunque, sto adempiendo ai rimanenti doveri, quelli verso la morte. Da voyeur infastidito o disgustato mi trasformo in attore ben consapevole.
Non so nulla di che cosa stia succedendo nella città. Non abbiamo contatti tra noi cecchini. Solo echi di spari, più vicini o più lontani. Ogni tanto urla, voci rabbiose, rumori di angoscia e di sofferenza. Nella nostra fedeltà ad ogni costo siamo rimasti isolati, ma mi sento vicino ai camerati dell’ultima battaglia, come se insieme stessimo salutando il cielo, il sole, la luce, non i presagi di vittoria, ma celebrando un degno addio alla vita. Nel suo commiato, il Comandante non ha usato molte parole, ma ha trovato quelle efficaci, anche se da inguaribile sognatore:
– I veri ribelli siamo noi. Ribelli contro un vecchio mondo di egoisti, di privilegiati, di conservatori, di capitalisti oppressori, di falliti sistemi, di superate ideologie, di dottrine ingannatrici. Ribelli contro il mondo dell’ingiustizia, in nome di una causa, della dignità nazionale, del rispetto per il lavoro, in nome della “terra dei padri”. Finirà male, temo.
Han deciso di ammazzarci tutti. Senza giudizio. Non darò loro questo piacere. Non mi aspetto nessun Paradiso, nessun Walhalla, nessun Palazzo del Sole, nessuna Janna con tante vergini, nessun Giardino dell’Eden, nessun Mondo Celeste. Come ai buddisti, mi piace l’idea dell’estinzione, del Nirvana, fine ultimo della vita, lo stato in cui si ottiene la liberazione dal dolore. Se hai vissuto da saggio e compassionevole… Non diventerò vecchio, non avrò figli, non trasmetterò il sangue, solo un sacrificio ignoto. Non conoscerò il tempo della saggezza, di quando le passioni si attenuano; ma neppure le ore della stanchezza e dell’oblio, della memoria smarrita.
Morirò nella mia terra, fedele ad essa, alla memoria di coloro che ci hanno preceduti, all’identità dell’Italia sofferente, la patria che ha dato, o cercato di dare, un senso più alto alla nostra storia di comunità, con le sue tradizioni, le sue fedi ed i suoi riti, i suoi ideali ed i suoi spiriti, le sue vittorie e le sue sconfitte, le luci sfavillanti e le ombre cupe, le certezze ed i misteri, il dolore antico, la sofferenza rinnovata ad ogni stagione, la speranza che, contro ogni logica, pur sempre rinasce. Passa, intanto, altro tempo. L’attesa che succeda qualcosa diventa insopportabile, spasmodica. Fumo, nervoso, ovvio. Sento come una vertigine di febbre ed un cerchio fastidioso alla testa. La tensione mi altera un po’ la vista. Avverto, adesso, un rumore più forte di motori. Probabilmente vengono per me. Controllo, per l’ennesima volta, che la Beretta sia carica e con il colpo in canna. Riprovo l’ultimo gesto.
Riprendo il fucile e scarico con furore, rapidamente, tre caricatori interi contro un convoglio di autocarri di partigiani che percorre lentamente corso Vittorio Emanuele verso il centro. Varie persone fanno ala ed applaudono, ma appena sentono sparare fuggono via. Sul primo mezzo ci sono tre cadaveri di camerati esibiti come trofei, un cartello con il nome appeso al collo. Non so se colpisco qualcuno. Urla rabbiose s’alzano contro di me. L’ultimo camion si ferma, ne scendono quattro uomini che cominciano, a loro volta, a sparare verso il campanile. Un inferno di proiettili che sibilano attorno e sbriciolano pezzi di muro. Mi nascondo. Mi riaffaccio e sparo senza poter mirare bene. Per quanto durerà ancora?La morte ormai è vicina, non ha tratti terribili, non mi sembra annientamento, ma liberazione prossima. Finisco l’acqua della borraccia. Mi abbottono meccanicamente la camicia. Passo la mano sui capelli sudati. Discendo la rampa e mi approssimo al tavolo che ho collocato contro la porta chiusa. Trascorrono minuti lentissimi, poi sento passi e voci concitate. È arrivato il momento.
– Repubblichino bastardo, per te è finita! – strepita una voce dall’ altra parte.
Scarico l’ultimo caricatore del 91 contro la porta, appena sopra la linea del tavolo e colpisco ancora qualcuno, oltre il legno, perché giungono urla, grida e bestemmie, in dialetto. Altre minacce, inutili e remote. Forse un intero caricatore di mitra viene sparato contro la porta. Non rispondo, anche se prima dell’assalto i soldati gridavano, per darsi coraggio, più che per infondere terrore nei nemici. Il cuore batte all’impazzata, non sento né amore, né tentazioni di perdono e neppur vero odio, nell’ora del mio addio dal mondo.
Mi allontano dalla porta, vado all’altra estremità, al riparo della parete. Scaravento a terra il fucile, afferro la pistola, mi appoggio al muro, respiro profondamente come per cercare un ultimo istante di serenità, mentre colpi di scure, credo, si abbattono sulla porta.
Infilo la canna fredda nella bocca. Non posso fare errori.
(Storia, un po’ romanzata, d’un vero caduto e d’un diario mai scritto).