Il primo luglio di mezzo secolo fa varcai il portone del liceo-ginnasio Dante a Firenze per sostenere l’esame di Maturità. Allora all’esame di Stato competeva la lettera maiuscola, perché, anche se molto facilitata e semplificata dalla riforma del 1969, la Maturità rappresentava ancora quel momento di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, simile ai riti di iniziazione virile delle tribù aborigene, che aveva costituito da quando era stato introdotta dalla riforma Gentile, nel 1923. Non si portava più il programma dei tre anni del liceo, le prove scritte e orali erano ridotte a due, su una rosa di discipline comunicate ad apriledal Ministero, e si poteva contare su un difensore d’ufficio nella persona del membro interno. Eppure l’esame conservava un’aura di sacralità non solo nei suoi riti esteriori: le buste con le tracce degli scritti consegnate da agenti in motocicletta, le finestre delle aule dove avevano luogo gli esami rigorosamente chiuse, perché non potessero uscire né entrare “pizzini”, gli involucri con gli elaborati sigillati con la ceralacca al termine delle prove scritte. Presidenti delle commissioni erano di regola professori universitari – alla mia classe toccò un valente etruscologo dell’ateneo fiorentino – e a volte assistenti universitari erano anche i commissari d’esame: si partiva dal principio, che era valso sino a pochi anni prima con l’esame di ammissione alle medie o di licenza ginnasiale, che i docenti dell’ordine superiore avessero il diritto-dovere di verificare la preparazione di chi ambiva ad accedervi. Le tracce della prova d’italiano erano oggetto di dotte dispute fra gli esperti e i grandi quotidiani chiamavano a commentarle o addirittura a svolgerle a modo loro illustri scrittori. E soprattutto i membri delle commissioni provenivano da tutta la penisola, in modo da scoraggiare camarille locali, ma anche da evitare le ricorrenti polemiche sui professori del Sud considerati più di manica larga rispetto a quelli del Settentrione.
Certo, rispetto all’originario impianto gentiliano, era scomparso il rigore nozionistico; la scelta opinabile di comunicare tre mesi prima dell’esame la rosa di materie oggetto delle prove faceva sì che in molte scuole si smettesse di studiare o d’insegnare le altre; già da due anni il numero delle bocciature era nettamente calato. Eppure molto del vecchio esame era rimasto, nell’importanza attribuita al tema d’italiano e nel colloquio, considerato – e qui c’era molto dell’autentico pensiero del filosofo di Castelvetrano – non un interrogatorio, ma uno strumento per accertare la reale capacità del candidato di mettere in collegamento discipline diverse. La prova non era più così severa da ricorrere negli incubi di ex candidati ormai con i capelli bianchi (ne ho conosciuti), ma non era ancora divenuta una sanatoria di massa. E soprattutto non era stata inquinata da una farragine di incombenze burocratiche onerose più per gli esaminatori che per gli esaminati. Tanto che i migliori presidenti di commissione sono ormai gli insegnanti tecnico-pratici (ora anche i presidi snobbano spesso la prova), che non hanno una laurea, ma hanno la dimestichezza col computer indispensabile per destreggiarsi fra i protocolli informatici.
Penso agli esami di maturità di questi giorni, senza prove scritte e con un semplice colloquio orale, e non posso fare a meno di avvertire la differenza. Certo, la pandemia esige precauzioni (ma allora perché riaprire le scuole nei mesi estivi, per far “socializzare” i ragazzi?), eppure non sarebbe stato impossibile diluire gli alunni in più aule durante lo svolgimento dei due scritti, salvando un minimo di serietà alla prova. E si pensa davvero che una “tesina”, per altro facilmente scopiazzabile sul web o delegabile a penne mercenarie, sostituisca quella verifica della capacità di comprendere il reale significato delle tracce, di scegliere di conseguenza, di ordinare le proprie idee esponendole senza reticenze né arroganza, di distribuire le proprie energie (sei ore sembrano tante, ma non sempre è così, perché dopo un certo tempo la lucidità si appanna), di elaborare il pensiero in maniera chiara ma incisiva, di evitare errori di ortografia e di grammatica, di cogliere l’essenziale nell’argomento richiesto?
Tornando a mezzo secolo fa, la traccia d’italiano che scelsi constava solo di quattro parole e di un segno d’interpunzione: “Romanticismo storico, romanticismo perenne”. Se la paragono alle pletoriche e pleonastiche tracce degli ultimi anni a.c. (ante covid), non posso fare a meno di provare una struggente nostalgia per quella laconica stringatezza, che mi conferma la superiorità morale ancor prima che culturale della scuola italiana – corpo ispettivo in primis – di mezzo secolo fa. E soprattutto non posso fare a meno di ammettere il mio errore, che m’impedì (giustamente) di raggiungere la votazione massima: essermi dilungato, facendo un saputo sfoggio di erudizione, sulla storia del romanticismo storico, sottraendo spazio a quello che sarebbe stat0 il nucleo centrale della traccia: la persistenza del sentire romantico in tutte le età della storia, dall’Ellade dei sommi lirici – che pure avevo imparato ad amare grazie a un grande grecista come il professor Aldo Bruscaglioni – alla moderna musica leggera, quasi la sua consustanzialità con l’essere umano (e non umano soltanto: nello sguardo languido del mio bassotto quando devo lasciarlo solo in giardino colgo una dolce malinconia che non avverto in tante canzoni d’amore). Molto migliore era stato tre anni prima il mio tema all’esame di licenza ginnasiale, con una traccia che richiedeva il confronto fra le personalità di Lucia e della monaca di Monza; ma lì mi aveva soccorso la diligenza con cui avevo annotato tutte le similitudini o le espressioni più iconiche dei Promessi Sposi: l’incipit del mio tema, col paragone fra la ciocca di capelli che sfuggiva dal soggolo a Gertrude e la compostezza di Lucia nel parlatorio del convento, aveva conquistato la commissione.
Mi toccò così un 56: voto non spregevole, utile per le borse di studio, ma un po’ beffardo: l’agognato e negato sessanta fu per me un po’ come un’allumeuse, come una donna che prima ti fa le lezie ma poi non si concede. Debbo aggiungere che all’epoca i sessanta non erano ancora inflazionati come i trenta all’università e che nella mia classe solo uno dei trentasei che eravamo lo ottenne e giustamente: avrebbe fatto una brillante carriera universitaria, come docente di logica matematica. A pari merito con me si classificò una compagna di classe destinata a una brillante carriera di giornalista e narratrice, nota però non col cognome da ragazza ma con quello dell’ex marito, un ricco commerciante di tappeti (una scelta che non capisco: secondo me una moglie è libera con la separazione di sottrarre al consortei soldi, non il cognome, ma questo sarebbe un discorso troppo lungo).
Eppure, devo confessarlo, quell’en plein mancato continua a rimordere al vecchio scolaro di oggi, non perché abbia la superstizione delle cifre, ma perché in quei quattro punti mancanti al diciottenne di mezzo secolo fa per arrivare al sessanta mi pare di scorgere una profetica anticipazione di tante beffarde delusioni cui sarei andato incontro, nel perenne e ben più severo esame di maturità della vita.