Molti si sorprendono quando condivido musica online. Siamo un po’ tutti prigionieri di stereotipi e pixel. Non tutta l’immagine proiettata esaurisce la realtà. Alcuni amici mi dicono: perché non racconti le note e i testi che ascolti? Provo a cimentarmi sul punto, con non poca timidezza. Per la prima volta cedo alla tentazione. Scrivo di musica (at large). Musica come la sento e vedo io.
Quando è decollato il primo pezzo in cuffia ho pensato: “Alan Parsons Project”. Così Random Access Memories, ha fatto il suo esordio nelle mie giornate. Da quel momento il quarto album in studio di un gruppo dal tocco francese e dalla zampata angloamericana, accompagna la mia scrittura, perché l’immaginario che traspira da questa musica è una droga dolce che pretende il comando: ne vuoi ancora, sempre. Effetto Daft Punk, all’anagrafe Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo, sulla scena musicanti-androidi.
Un’estate che s’inebria con Get Lucky, la remixa e balla, è l’occasione per mettersi la tuta da palombaro e scoprire una nuova Atlantide della musica contemporanea.
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Similitudini, influenze, rimandi, un mashup di suoni, arrangiamenti, culture che non è Robot Music per comic heroes, ma un cocktail ad alta gradazione che nell’intro alcolico non nasconde le curve sensuali di altri sapori, nascosti, delicati. Daft Punk è una distilleria che produce un blend di house, funk, electro e techno invecchiato in fusti di titanio. Gusto e retrogusto restano, sono persistenti e finito l’assaggio, diventano immanenti.
Torniamo al primo brano di Random Access Memories e a quel rimando proustiano agli anni dominati da Alan Parson, l’artigiano eclettico del suono dei Pink Floyd, non a caso nato a Londra e cresciuto negli studi della Emi in Abbey Road, il fabbro delle atmosfere di Atom Hearth Mother e The Dark Side of the Moon, un ingegnere capace di creare giri armonici con i calcolatori elettronici, la sintetizzazione dell’anima esplosa in equazioni e salti di pentagramma.
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Il rendez-vous delle capsule spaziali di Daft Punk e Alan Parsons Project ha una sigla, un suono inconfondibile. Quello dell’album I Robot, anno 1977. E’ proprio il pezzo omonimo a lanciare l’arpione tra i due gruppi, a costruire il ponte tra due epoche in apparenza lontanissime. Eppure, qui i mondi si toccano.
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I Pink Floyd sono l’altra radice della musica dei Daft Punk. Non una semplice citazione, ma un fiume carsico che dalla traversata galattica di Speak to Me arriva fino al viaggio spaziale di Contact.
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Sono suoni remoti, che vengono da un lontano “antico”, figlio dell’astrologia e teosofia, traccianti luminosi di umori astrali. Basta segnare sulla mappa la rotta seguita da Gustav Theodor Holst, il geniale creatore de I Pianeti, per averne la prova. Opera concepita nel 1914, un capolavoro. Ecco orbitare Urano, il mago, la sua irradiazione sonora arriva fino a noi.
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Salire su un razzo, partire con lo slancio delle note della Electric Light Orchestra per scoprire l’e-voluzione di quel suono che raggiunge il picco contemporaneo con l’album dei Daft Punk. Che cosa è Ticket to the Moon (da Time, 1981) se non il preludio di Within, un viaggio onirico nelle distorsioni del tempo e dello spazio.
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I Daft Punk hanno scritto non un libro per turisti ma per viaggiatori, ridando vita al senso e al significato di “incidere”. Random Access Memories è un ritorno al futuro, ha il sapore di un LP. Basta ascoltare il meraviglioso tributo intitolato Giorgio by Moroder per scoprire una vita, una biografia, la parabola di un umano raccontata dagli androidi.
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Si tratta, semplicemente, inesorabilmente, di esplorazioni interiori. Buon viaggio.
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