“Filmare è il certificato di morte che cerco nelle cose” dice a un certo punto Costanza Quatriglio mentre scorrono le immagini del padre e di libri, filmati, negativi, fotografie, appunti, lettere, oggetti, scaffali, stanze che hanno popolato la vita di Giuseppe Quatriglio. Il particolare dell’urna del padre dissotterrata nel giardino di casa è una metafora fin troppo esplicita come le tante che corrono dentro Il cassetto segreto, il cinedocumentario che la regista, tra le personalità più fervide del cinema italiano, ha dedicato al padre. 132 minuti in cui la testimonianza e la memoria invadono la macchina da presa e restituiscono un racconto bulimico e un film ricercato.
“Il film è il frutto di un processo creativo cominciato nel momento in cui ho deciso di filmare le archiviste e i bibliotecari che per sette mesi hanno lavorato a casa” dice la regista raggiunta alla presentazione del lungometraggio al Cinema Aurora di Siracusa (nella foto la regista con Lisa Romano, direttore artistico di Ortigia Film Festival).
Il film intreccia anche alcune riprese fatte al padre per un anno dal 2010, i filmati fatti da Giuseppe Quatriglio (giornalista del “Giornale di Sicilia” e collaboratore e inviato di molte testate nazionali), filmati d’epoca e immagini della regista alle prese con il caos della casa e l’ordine dei ricordi. Giuseppe Quatriglio fu un maestro del giornalismo, un professionista della comunicazione. Il suo scoop fu la scoperta delle tre celle del Sant’Uffizio nel Palazzo Chiaromonte (lo Steri) a Palermo con i graffiti fatti con il fumo e il sangue dei prigionieri. Scoperta condivisa con Leonardo Sciascia che indagò l’Inquisizione facendone altresì metafora del modo in cui la Giustizia opera attraverso i suoi uomini: li definì “uomini di tenace concetto”. Sciascia indagò anche il mondo di J. L. Borges e vide nel labirinto dell’argentino un inconcepibile antirealismo. Inconcepibile, c’è da scommettere, anche per Giuseppe Quatriglio, la cui enorme biblioteca era lo specchio di un universo personale di interessi e letture “Organizzare lo spazio aveva già un potenziale narrativo. Poi ho voluto riversare il privato nel collettivo”. Un privato da figlia “Nel momento in decido di realizzare un film nella casa in cui sono nata e cresciuta devo necessariamente impormi di essere narratrice al di là del fatto che sono figlia e quindi obbedire alle regole di racconto. Non è stato difficile, anzi anche divertente, ma non per questo non emotivamente coinvolgente: ho cercato di giocare in questa casa come una bambina tra le cose del padre”.
Deviazione è la cifra del cinema di Costanza Quatriglio: l’oltre del linguaggio supera di gran lunga le tematiche pur scomode e urgenti, necessarie talvolta. Film in cui la “drammaturgia del reale” (Triangle sulle tragedie del lavoro o Il mondo addosso sull’immigrazione metropolitana) si innesta nell’esemplarità delle vite. Quatriglio, che preferisce non rispondere sulla questione produzione che divide film e documentario con annessi fondi di Tax Credit, rivendica il documentario come scelta di poetica “Il documentario è cinema. E’ forse la forma più pura di cinema, che è cominciato filmando il reale. Il mio modo di fare cinema mescola sia l’attenzione al reale sia la narrazione. Il che significa che faccio documentari che sono spesso grandi narrazioni allo stesso modo in cui realizzo film di finzione con degli attori”. Dunque, è una questione di linguaggio “Certo, per Il cassetto segreto ho scelto diverse modalità di ripresa all’interno dello stesso arco narrativo. All’inizio c’è una modalità legata all’urgenza del fare: in casa con le archiviste e i bibliotecari utilizzo una piccola camera quasi fosse una personificazione della mia presenza in casa. Pian piano consegno la macchina da presa a qualcun altro in modo tale da poter prendere quella distanza che serve per poter raccontare lo spazio includendomi dentro lo spazio. Quindi, faccio anche una riflessione sul fatto che il cinema può trasformare la realtà”.
Uno vale molti nei documentari di Quatriglio. Nada Malanima in La bambina che non voleva cantare diventa il contesto della Toscana degli anni ’60 e Vincenzo Rabito, il contadino semianalfabeta di Chiaramonte Gulfi (in Sicilia) diventato caso letterario con le 1027 pagine dattiloscritte di Terramatta, offre a Quatriglio la materia per raccontare l’Italia del Novecento attraverso l’omonimo documentario che valse alla regista il Nastro D’Argento 2013. Il memoriale di Rabito spinse alla creazione dell’Archivio degli Iblei. L’Archivio è lo spunto da cui nasce Il cassetto segreto: Quatriglio decide, nel 2022, di donare l’immenso archivio paterno alla Biblioteca della Regione Siciliana. Ma nega il legame tra Terramatta e il film sul padre “Sono due film molto diversi che obbediscono a necessità di tipo diverso. Stiamo parlando di un analfabeta che conquista una lingua e qui di un intellettuale del Novecento. Credo, però, che non avrei potuto fare Terramatta se non avessi nella mia testa e nella mia memoria anche uditiva il rumore della macchina da presa”
Il punto è la macchina da presa. Il cassetto segreto pare sommerso dalle peripezie della macchina da presa: primissimi piani, campi medi, dettagli e particolari, carrellate (anche vorticose) e dissolvenze anche tra colore e bianco e nero, filtri e inquadrature in soggettiva e un montaggio che segue una linea del tempo a ritroso: dall’epilogo al prologo e quattro atti presentati come un cartiglio colorato del cinema muto. Le musiche meno stranianti di quelle cui Quatriglio ha abituato il suo pubblico.
E’ un fatto tutto di cinema, Il cassetto segreto. Ed è cinema quello che resta alla fine di 132 minuti di virtuosismo registico. Dissotterrare l’urna per sapere ciò che resta di una vita o per vedere cosa sa fare una macchina da presa quando a muoverla è la consapevolezza del possesso dell’arte di fare cinema? Il cassetto segreto soffre, in ragione dell’indugio estetico, della lunghezza e dell’idea non certo nuova (d’altronde, fare i conti con la memoria familiare tocca prima o poi a tutti), ma solo se lo si guarda solo come un viaggio intimo o solo come una testimonianza storica (bello il ricordo di Ignazio Buttitta). E’, piuttosto, una grande metafora del dentro. Quando il dentro si svuota, resta l’arte. C’è una scena che vale tutto il film e che vale tutto l’amore per il cinema, l’amore di chi lo fa e l’amore di chi lo guarda. La regista figlia cammina nelle fenditure del Cretto di Burri, inquadra dall’alto gli spazi vuoti tra quelle scatole di cemento che coprono un dentro svuotato dal terremoto del Belice. Altre inquadrature incrociano gli scatoloni dentro la casa, sistemati uno accanto all’altro e separati anch’essi da fenditure. Potrebbe essere narcisismo o didascalia: è, invece, il senso di ciò che resta. Delle cose, delle esistenze, delle emozioni, dell’inizio e della fine. Resta l’arte a dissotterrarli, per sempre.