“L’Avvenire” di domenica scorsa ha pubblicato, con un commento di Aldo Picarello, il testo di un discorso che Aldo Moro tenne ai microfoni di Radio Bari, probabilmente ai primi del 1944. In un quadro politico in cui cominciavano a farsi pressanti le richieste di una drastica epurazione della burocrazia, il giovane docente universitario di diritto penale, responsabile per il Sud della Fuci, pur esprimendo la più severa condanna del fascismo, si esprimeva contro un allontanamento indiscriminato di quanti erano stati compromessi col regime, e teorizzava una sorta di distinzione fra i “fascisti di tessera” e i “fascisti di fede”. Parole nobili, che dimostravano in chi le pronunciava una sottile intelligenza politica: la denuncia degli eccessi epuratori fu alla base delle fortune dell’Uomo Qualunque e del resto lo stesso Togliatti, varando l’amnistia che ne porta il nome, preparò il terreno per la cooptazione nel Pci e nella Cgil di buona parte dei quadri intellettuali, politici e sindacali del fascismo.
Per comprendere meglio la presa di posizione coraggiosa del giovane Moro, potrebbe essere interessante però conoscere un dettaglio di carattere familiare. Il padre di Aldo, Renato Moro, maestro elementare, poi direttore didattico e infine ispettore periferico del Ministero dell’Educazione Nazionale, era stato elevato nel 1942 al rango di ispettore centrale, il massimo livello di carriera cui potesse aspirare un docente. La promozione rientrava nell’ambito di una serie di nomine “per chiara fama” decise dall’allora ministro Bottai. Scelte discrezionali, ma, nella maggior parte dei casi, tutt’altro che infelici: basti pensare alla nomina di due fra i maggiori poeti italiani del secolo scorso – Giuseppe Ungaretti e il Nobel Salvatore Quasimodo – rispettivamente alla cattedra di storia della letteratura italiana all’università di Roma e alla cattedra di letteratura italiana al Conservatorio di Milano, alla nomina di un fine critico e protagonista della stagione vociana come Giuseppe De Robertis alla cattedra di letteratura italiana nella facoltà di Lettere di Firenze e, per rimanere nell’ambito più strettamente didattico, alla promozione del fondatore e animatore del “Frontespizio” Piero Bargellini – futuro sindaco di Firenze nei mesi dell’Alluvione – a ispettore centrale del Ministero. Il fatto è che – a quanto mi riferì Gaetano Rasi, persona ben informata dei fatti perché il padre era un funzionario del ministero di viale Trastevere che aderì alla Rsi – Renato Moro non seguì l’esempio di Bottai e dopo la nascita della Repubblica Sociale si trasferì a Salò. Anzi, per l’esattezza, a Padova, dove aveva sede il Ministero dell’Educazione Nazionale della Rsi, retto da quella poliedrica e per molti aspetti geniale figura di giurista e di politico che fu Carlo Alberto Biggini. A Biggini, che era un moderato, occorre tra l’altro riconoscere il merito di non avere imposto il giuramento agli insegnanti (come, da Guardasigilli, si rifiutò d’imporlo Piero Pisenti), e di avere intrattenuto buoni rapporti con un grande latinista come Concetto Marchesi, cui continuò a far corrispondere lo stipendio anche dopo le sue dimissioni da rettore.
Non so quanto sulla scelta di Renato Moro abbiano influenzato intime convinzioni, esigenze pratiche, stima personale nei confronti di Biggini; fatto sta che la testimonianza di Gaetano Rasi, che mi ricordava sempre la circostanza ogni volta che mi vedeva, sapendo che anch’io ero stato nominato, qualche decennio dopo, ispettore ministeriale, mi sembra attendibile. In seguito Renato Moro non fu epurato, concluse degnamente il suo servizio nel 1952, continuando poi a prestare servizio volontario e gratuito presso il Ministero (tornato della Pubblica Istruzione) come consulente per l’edilizia scolastica, pubblicò molti saggi di carattere didattico e amministrativo e nel 1954, quattro anni prima di morire, fu insignito del Diploma di prima classe ai benemeriti della Storia, della Cultura e dell’Arte. Oggi gli è intitolato un istituto scolastico a Taranto. Tutti lo descrivono come un gentiluomo meridionale d’altri tempi oltre che un austero funzionario e non credo che i riconoscimenti da lui ottenuti dipendessero dall’influenza del figlio, che per qualche tempo fu anche ministro della P.I.
Perché ricordo tutto questo? Non certo per insinuare che, dai microfoni di Radio Bari, ai primi del ‘44, il professor Aldo Moro parlasse pro domo sua, o meglio pro domo del padre Renato, che le circostanze avevano indotto a compiere una scelta diversa dalla sua. E nemmeno che l’ispettore centrale Moro abbia ottenuto un trattamento di favore a guerra terminata mercé i buoni uffici del figlio., o che la presenza di suo figlio Aldo ai funerali di Bottai, che molta sorpresa suscitò, sia stata dettata da gratitudine per la promozione concessa al padre. Ma solo per far capire l’assurdità di giudicare in base a contrapposizioni manichee, a tre quarti di secolo dagli eventi, opzioni che furono spesso sofferte e difficili. Chi parla oggi di male assoluto o di correità con i campi di sterminio (di cui non si conosceva l’esistenza, mentre erano quotidiani i bombardamenti a tappeto alleati) non ha capito assolutamente nulla della complessità del dramma che attanagliò molti italiani, combattuti fra opposti schieramenti e anche da opposti giuramenti, divisi fra le scelte ideali e l’esigenza di assicurare comunque l’ordinaria amministrane, perché le scuole, come i tribunali, le questure, le stazioni dei Carabinieri, non possono entrare in sciopero.
p.s. Gaetano Rasi, chi era costui? – potrebbe chiedermi qualcuno dei miei lettori, soprattutto fra i più giovani. Potrei dire che fu professore universitario, deputato, fondatore dell’Istituto di studi corporativi, direttore della prosecuzione degli Annali dell’Economia Italiana di Epicarmo Corbino, monumentale opera edita dall’Ipsoa, consigliere d’amministrazione dell’Agenzia per il Mezzogiorno e di Telecom Italia, garante della Privacy. Ma preferisco ricordarlo come “ministro per un giorno”. Designato da Alleanza Nazionale come ministro “tecnico” nel governo Dini, quando il suo partito tolse la fiducia al ministero si dimise nel giro di ventiquattro ore. Pochi anni dopo fu autore (non per viltate, anzi) di un altro “gran rifiuto”: ricusò di partecipare, nonostante l’invito di Gianfranco Fini, a un convegno della Trilateral in rappresentanza di An. Una scelta che gli fa anch’essa onore.
Era un uomo brillante, amante della vita, più piacevole forse come conversatore che come scrittore. Pochi giorni prima di morire, a quasi novant’anni, come mi raccontò un caro amico, era tutto felice di avere assunto un nuovo cuoco, che cucinava meglio del precedente. Evidentemente qualche piatto gli rimase indigesto, ma non gli rimase indigesta la vita, che seppe vivere con coerenza e coraggio fino all’ultimo.