
“Ai posteri l’ardua sentenza”. Con la saggia scelta di astenersi dal valutare un protagonista della storia troppo a ridosso degli eventi, Alessandro Manzoni, nei martellanti decasillabi del “Cinque Maggio”, spostava il giudizio su Napoleone dal terreno politico a quello religioso, accogliendo con lo zelo del convertito la notizia che il vecchio persecutore del Papato fosse morto con i conforti della fede. Ma ormai sono passati duecento anni dalla morte del Bonaparte e i posteri siamo noi. Che pure non sembriamo capaci, a destra come a sinistra, di giudicare se quella di Napoleone sia stata una gloria vera.
A sinistra, una cancel culture che ha da tempo smarrito – ammesso che l’abbia mai avuto – il senso del ridicolo, al punto da demonizzare il bacio senza autorizzazione del principe a Biancaneve – ha demonizzato Napoleone per quelle che furono, valutate col metro dell’epoca, le sue colpe minori: l’impronta “maschilista” del Codice Civile e il ripristino della schiavitù nelle colonie. La spietata repressione della resistenza in Spagna, i saccheggi e gli stupri che accompagnarono la campagna d’Italia, i furti sistematici delle nostre opere d’arte, l’ignobile baratto del Veneto con il Belgio, che suscitò lo sdegno del Foscolo, il rapimento e la fucilazione del duca d’Enghien, che gli valsero l’eterna inimicizia di Chateaubriand, la megalomania che lo spinse a sacrificare intere classi di leva ai suoi sogni di grandezza, nella cinica convinzione che tanto “una notte d’amore di Parigi” gli avrebbe restituito i suoi battaglioni scompaiono dall’atto d’accusa della gauche, oscurati dalle violazioni dei diritti dei “neri” e delle donne.
Diverso, ma anch’esso contraddittorio, l’atteggiamento della destra, soprattutto italiana, nei confronti del Bonaparte. Se ai gollisti e post-gollisti francesi si può perdonare il culto dell’Empereur, che fa rima con grandeur, è difficile difendere le nostalgie bonapartiste in noi italiani, che dall’invasione napoleonica abbiamo ricevuto solo furti, spoliazioni, imposizioni arbitrarie (in Toscana i francesi erano soprannominati “nuvoloni” per i loro arroganti proclami che cominciavano sempre con l’espressione “nous voulons”), coscrizione obbligatoria per guerre che non erano le nostre. In una nazione che beneficiava dei vantaggi di un saggio riformismo illuminato, da Firenze a Napoli, per tacere del buon governo asburgico in Lombardia, l’invasione francese recò in prevalenza danni materiali e anche morali. Anche perché un segreto del successo delle armate giacobine e poi napoleoniche era il fatto che, a differenza degli eserciti dell’Ancien Régime, la cui marcia era rallentata dalla scelta di recare con sé i rifornimenti, le truppe francesi vivevano sul saccheggio sistematico dei territori occupati.
Il Bonaparte portò forse in tutta Europa un codice liberale, ma con metodi illiberali; il vero liberalismo, sia pur con tutti i suoi limiti, soprattutto per quanto riguarda la questione irlandese, era quello della Gran Bretagna dell’habeas corpus, che fu anche per questo, oltre che per motivi geopolitici, la più strenua avversaria dell’Imperatore. E sbaglia pure chi fa risalire le origini del Risorgimento alle repubbliche giacobine; il sentimento d’italianità risorse in realtà proprio in opposizione all’invasione napoleonica, col fenomeno delle Insorgenze, corale e popolare reazione alla dominazione straniera. Certo, complice anche il culto dei grandi uomini tipico del romanticismo ottocentesco, la figura di Napoleone ha esercitato un fascino non indifferente sulla cultura italiana e Mussolini era compiaciuto quando Oswald Spengler in Anni decisivi definiva il Bonaparte “un italiano che per affermare la sua volontà di potenza aveva scelto la Francia”. Ma se c’è un Napoleone a cui l’Italia deve molto, questi non è Napoleone I, ma Napoleone III, che oltre a regalare alla Francia un periodo di straordinaria prosperità e a Parigi il suo splendido volto, ha recato un contributo determinante al nostro processo di unificazione nazionale. Quello che Victor Hugo aveva ribattezzato Napoleone il Piccolo per noi italiani è stato Napoleone il Grande, anche se invece che per il sole di Austerlitz è passato alla storia per il fango di Sedan. Grazie a lui, come ha scritto Rosario Romeo, l’Europa dei trattati fu sconfitta per la prima volta dall’Europa delle nazionalità. In fondo, zio e nipote furono entrambi dei vinti. Ma è stato il secondo il vero amico dell’Italia.
Un sanguinario, un ladro, un nepotista, un egolatra. A parte gli ebrei, un altro Hitler…
Condivisibile riflessione che guarda finalmente Napoleone dalla parte dell’interesse nazionale italiano.
Ma su Napoleone III, sempre dal nostro punto di vista, mi si consenta qualche dubbio.
E’ vero che aiutò la crescita territoriale del Piemonte – e, di conseguenza, la nascita della nazione italiana – ma contava di averne qualche contraccambio territoriale.
Quando invece si accorse che l’abile Cavour aveva giocato su due/tre tavoli contemporaneamente, vincendo tutte le mani, covò vendetta. E la sua ombra sull’avvelenamento del conte Benso non è mai stata dissipata.
Napoleone III ebbe il Ducato di Savoia e la Contea di Nizza, come pattuito. Cavour non giocò Napoleone (se ne servì, ma è un’altra storia) e all’Inghilterra faceva comodo una Potenza nel Mediterraneo in funzione antifrancese (come lo sarà la Jugoslavia dopo la Pace di Versailles in funzione anti italiana). Se poi i Borbone perdettero un grande Regno (dal ridicolo nome Due Sicilie) quasi senza sparare un colpo, almeno sino a Gaeta, quando era tardi, la colpa non era dei mille straccioni che accompagnarono Garibaldi, che arrivò a Napoli in treno, giacché la camorra voleva dimostrare il suo potere, in quell’impresa farsesca alla Pulcinella follemente divenuta realtà…La storia dell’avvelenamento del Cavour, morto di malaria dopo aver visitato le risaie di famiglia nel vercellese, è pura leggenda dietrologa e complottista…