Le tre Relazioni del Da Mosto (le due concernenti i suoi viaggi più una terza sul viaggio in Guinea e in Liberia del portoghese Pedro de Sintra, redatta dallo stesso Da Mosto su notizie fornitegli, nel corso del suo soggiorno a Lagos nel 1462, da un suo ex scrivano, che aveva partecipato alla spedizione) furono stampate per la prima volta a Vicenza nel 1507. Già prima tuttavia di essere pubblicate erano in parte note tra gli addetti ai lavori, poiché la loro stesura avvenne quasi certamente a Venezia tra il 1464 e il 1465, uno o due anni dopo il rientro di Alvise dal Portogallo. Il certo è che tali relazioni influenzarono profondamente la cartografia italiana epocale. Già nel corso della seconda metà del XV secolo Grazioso Benincasa si servì abbondantemente delle indicazioni in esse date. Il noto cartografo anconetano cambiò difatti nelle carte da navigare posteriori al 1466 la toponomastica delle stesse uniformandola a quella del Da Mosto. Lo stesso, però, non avvenne con Fra Mauro nel celebre suo mappamondo.
Scrive Tullia Gasparrini Leporace:
«La data del 1464-1465, proposta per la stesura delle tre Relazioni, spiegherebbe perché dei due più noti e importanti cartografi dell’epoca, il camaldolese Fra Mauro, che aveva il laboratorio nell’isola di Murano presso Venezia, e l’anconetano Grazioso Benincasa, solo quest’ultimo abbia riportato nelle sue carte posteriori al 1466 i nomi delle località visitate dal Da Mosto e dal De Cintra. Nel celebre planisfero del Camaldolese, terminato nell’agosto del 1460, invece, non sono indicate le isole del Capo Verde e non va oltre al Capo Rosso l’indicazione dei nomi delle località sulla costa atlantica africana; eppure il cartografo lavorava su commissione del re di Portogallo [ossia, Alfonso V] ed era interessato ad essere aggiornato sulle più recenti scoperte dei Portoghesi, perciò si sarebbe valso delle Relazioni del Da Mosto se queste fossero state redatte e divulgate prima del 1460» (GASPARRINI LEPORACE: XIV-XV).
Oltre a quelle già citate vi sono tante altre testimonianze che dimostrano, in maniera inequivocabile, la superiorità al tempo che gli Italiani avevano in fatto di navigazione rispetto non solo al Portogallo e alla Spagna ma a tutti gli altri Paesi europei. Vediamone alcune in rapida rassegna.
Nelle carte da navigare dei secoli XIV e XV (prima tra tutte quella di Angelino Dalorto, o Dulcert, del 1339) due delle isole più settentrionali delle Canarie sono denominate Allegrancia e Lanzarote, ovverosia portano i nomi, rispettivamente, di una delle due galee dei Vivaldi e di Lanzarotto Malocello, il quale ultimo, probabilmente giunto in Portogallo, a Lisbona, al seguito di Emanuele Pessagno, vi guidò una spedizione tra il 1325 e il 1336.
Nel celebre Atlante Gaddiano-Laurenziano del 1351 e negli atlanti successivi dei secoli XIV e XV, la bandiera genovese, composta dalla croce vermiglia su fondo bianco, campeggia su queste due isole.
Un altro documento importante che attesta se non proprio la priorità certamente il grande contributo dato dagli Italiani alla scoperta, non solo delle Canarie e di Madeira, ma anche delle Azzorre, è la relazione De Canaria et de insulis ultra Hispaniam in Oceano noviter repertis, scritta a quanto sembra dal Boccaccio e oggi conservata nella Biblioteca Nazionale di Firenze. In questa relazione l’autore, basandosi su delle lettere, che riferisce di aver visto, inviate da Siviglia a Firenze da alcuni che presero parte all’impresa, narra che il 1° luglio del 1341 tre navi, rifornite di tutto il necessario dal re Alfonso IV di Portogallo, salparono da Lisbona, facendovi poi ritorno nel novembre dello stesso anno. L’equipaggio era formato, riporta la relazione, da «fiorentini, genovesi, catalani, castigliani e altri spagnoli». Due dei capitani erano Nicoloso da Recco, ligure, e Angiolino del Tegghia de’ Corbizzi, toscano. Tale spedizione avrebbe toccato, sempre secondo questo resoconto attribuito al Boccaccio, prima Madeira e le Canarie e poi le Azzorre.
Anche la scoperta o riscoperta – dando per buona, in questo caso, la testimonianza fornitaci da Alvise Da Mosto – di parte dell’arcipelago di Capo Verde, più precisamente il gruppo orientale (formato dalle isole Fogo, São Tiago, Maio, Boa Vista e Sal), è opera di un italiano, del genovese Antonio da Noli, che nel 1460, ottenuta licenza dal principe Enrico, si era diretto insieme al fratello Bartolomeo e al nipote Raffaello in direzione delle coste africane.
Da quello finora detto è evidente come la scoperta delle varie isole nordoccidentali africane sia stata realizzata con il contributo fondamentale degli Italiani, soprattutto Genovesi, al servizio della corona portoghese.
Oltre ai già citati, molti altri furono i navigatori italiani che parteciparono, sempre al servizio del Portogallo (ma anche della Spagna, non dimentichiamolo), al movimento delle scoperte.
È il caso, ad esempio, di Lanzarotto Pessagno, discendente dell’ammiraglio Emanuele Pessagno. Lanzarotto, nel 1444, al comando di una flotta di sei caravelle navigò fino oltre il Capo Bianco: lo scopo del viaggio era la cattura di schiavi. Di questo commercio, iniziato attorno al 1441-1442, ne parla diffusamente, nella sua Crónica da Guiné, Gomes Eanes de Zurara, secondo il quale fino al 1448 gli schiavi catturati e portati in Portogallo superavano le novecento unità (ZURARA, 1973: 405).
Come non ricordare poi Bartolomeo Colombo, non fosse altro perché fratello del più famoso Cristoforo, e che era un cartografo abbastanza conosciuto nonché anche lui navigatore al servizio della corona portoghese. Nel 1476 venne raggiunto a Lisbona da Cristoforo, il quale, prima di intraprendere al servizio della Spagna il suo celebre viaggio, con l’intento di «buscar il levante per il ponente», ossia di giungere per mare alle mitiche terre del Catai e del Cipango, che erano state così “favolosamente” descritte da Marco Polo nel suo Milione, navigò più volte al servizio del Portogallo lungo le coste occidentali dell’Africa.
Nel prosieguo delle scoperte e conquiste d’oltremare, il Portogallo si servì non solo di navigatori ed esploratori italiani ma anche dei migliori cartografi della nostra Penisola. Oltre ai già citati Grazioso Benincasa, Fra Mauro e Bartolomeo Colombo è d’obbligo ricordare Paolo dal Pozzo Toscanelli, il quale, dopo avere inviato, nel 1474, il suo planisfero ad Alfonso V, esortò questi a intensificare i tentativi di circumnavigazione dell’Africa.
E così già nel 1482 e nel 1485-86 due spedizioni portoghesi, entrambe comandate da Diogo Cão, si spinsero oltre il Golfo di Guinea, senza però giungere all’estremità meridionale dell’Africa. Questo privilegio, per così dire, sarebbe toccato tre anni dopo, nel 1487, a Bartolomeu Dias che giungeva finalmente al Capo delle Tempeste (poi ribattezzato Capo di Buona Speranza), doppiato nel 1488.
Quando poi nel 1493 si ebbe notizia della scoperta realizzata da Colombo e successivamente di quelle dell’isola di Terranova e della penisola del Labrador, occorse nel 1494-97, ad opera dei fiorentini Giovanni e Sebastiano Caboto al servizio della corona inglese, i Portoghesi accelerarono i loro progetti per arrivare alle Indie Orientali navigando dalla parte del Capo di Buona Speranza.
L’8 luglio 1497 salpava da Lisbona la spedizione di Vasco da Gama, il quale dieci mesi dopo giungeva a Calicut (20 maggio 1498), sulla costa occidentale indiana. Nel 1500 ci fu il viaggio di Pedro Álvares Cabral che avrebbe scoperto il Brasile (23 aprile). Una delle tredici caravelle, la San Vincenzo, che componevano la flotta, la cui meta era l’India, fu allestita da Bartolomeo Marchionni, un ricco mercante fiorentino, da anni residente a Lisbona (per lo meno dal 1480), e le cui navi commerciali avrebbero più volte percorso la cosiddetta carreira da Índia.
Sarebbe seguito a distanza di pochi anni il consolidamento, ad opera soprattutto dei viceré Francisco de Almeida (1505-1509) e Afonso de Albuquerque (1509-1515), dell’Impero coloniale portoghese d’Oriente.
Nel 1504 si stabiliva a Lisbona con tutta la propria famiglia il veneziano Bonaiuto Albani, che aveva dimorato alcuni anni, a partire dal 1482, in India, vale a dire sedici anni prima che vi giungessero i Portoghesi. Ed essendo stato contattato dalla corona portoghese non è difficile dedurne che il Bonaiuto abbia fornito notizie importanti su quei luoghi.
Occorre anche dire come in quell’epoca esistessero a Lisbona molte compagnie o case commerciali italiane: genovesi (i già ricordati Pessagno e Usodimare, nonché i Fieschi, i Negri, i Cassano); fiorentine (gli Strozzi, i Sernigi, i Marchionni, i Frescobaldi, i Gualterotti, gli Acciaiuoli); veneziane (i Conti); cremonesi (gli Affaitati). Queste e altre case commerciali italiane, alcune delle quali funzionavano spesso come vere e proprie banche, presero attivamente parte, impiegando le proprie navi e dividendo i profitti, alle spedizioni dirette nelle “Indie”. Le navi erano non di rado comandate da italiani, con equipaggi misti. Alcuni di essi, uomini di discreta cultura, lasciarono delle relazioni scritte dei loro viaggi che molto contribuirono con le informazioni in esse contenute alle successive imprese.
A tale riguardo merita di essere ricordato Giovanni da Empoli. Questi, che lavorava al servizio dei Gualterotti e Frescobaldi, intraprese, a partire dal 1503, tre viaggi in Oriente a scopo commerciale. Nel corso del suo secondo viaggio (1510-1514), durante le operazioni militari di Afonso de Albuquerque contro Goa, Sumatra e Malacca, l’Empoli combatté valorosamente tanto da vedersi offerta la nomina di feitor di Malacca, incarico che però rifiutò, preferendo rientrare a Lisbona. Una volta in Portogallo, il sovrano Emanuele I, in riconoscimento dei servigi prestati alla corona portoghese, lo incaricò di impiantare a Sumatra una feitoria. Recatosi per la terza e ultima volta in Oriente, tra il 1515 e il 1517 viaggiò, accompagnato da altri fiorentini, lungo le coste cinesi, giungendo a Canton. Ivi, poco dopo sarebbe morto di febbre gialla, e ciò quando già aveva avviato relazioni commerciali con l’imperatore cinese (SPALLANZANI, 1999).
Vi è poi il bolognese Lodovico de Varthema che, lasciata l’Italia nel 1500, giunse in Oriente via Mar Rosso, per poi far ritorno in Europa, nel 1508, attraverso l’Atlantico, imbarcato sulla flotta di Francisco de Almeida. Per il valore e lo zelo dimostrati nella guerra d’India sarebbe stato nominato cavaliere dal re Emanuele I. Nel corso dei sette anni trascorsi a viaggiare visitò molte regioni, tra cui alcune mai esplorate dagli europei – è il caso dell’arcipelago delle Molucche. Pubblicò a Roma, nel 1510 e in italiano, l’Itinerario dei suoi viaggi. L’opera ebbe d’immediato enorme successo, come testimoniano le diecine di edizioni (oltre cinquanta) che ne vennero fatte in tutte le lingue europee tra il XVI e il XVII secolo, tra cui quella ad opera di Giovanni Battista Ramusio, per le sue Navigazioni e Viaggi, condotta sulla traduzione spagnola del 1520, a sua volta realizzata su quella latina del 1511.
Oltre a Giovanni da Empoli e a Lodovico de Varthema, vari altri italiani furono al servizio della corona portoghese in Oriente. Tra i tanti, meritano di essere ricordati: il fiorentino Francesco Corbinelli, che si recò in India nel 1509 capitanando una delle navi della flotta di Fernão Coutinho (giunto sul luogo, Corbinelli si distinse in varie azioni militari, quale quella che portò alla definitiva conquista di Goa, nel 1510, di cui sarebbe stato nominato feitor); Leonardo Nardi, anch’egli fiorentino, recatosi in India nel 1510 e autore di una nota lettera, del 1502, «destinata a costituire un importante resoconto del viaggio compiuto da João da Nova nel 1501-1502» (riportata in: SPALLANZANI, 1997: 59-62); il veneziano Luigi Roncinotto, che si recò in India intorno al 1532, lasciando di questo suo viaggio e della permanenza in quelle terre una relazione manoscritta.
A questo elenco – ovviamente assai incompleto – vanno anche ad aggiungersi moltissimi missionari italiani che, sempre al servizio della corona portoghese, si recarono in Oriente per predicare il Vangelo.
Questo quanto all’Oriente. Gli Italiani tuttavia diedero la propria collaborazione anche alle spedizioni portoghesi verso ponente.
Appresa la notizia dell’impresa di Colombo, i sovrani portoghesi non rimasero inattivi, decidendo di intraprendere delle spedizioni lungo il cammino tracciato dal grande navigatore genovese, così da scoprire e sfruttare tutte le terre che rientravano nell’area assegnata loro in base al trattato di Tordesillas (7 giugno 1494) stipulato con la Spagna.
In questo contesto si inserisce la figura di Amerigo Vespucci. Questi era al servizio della corona spagnola quando compì, nel 1499-1500, il suo primo viaggio lungo le coste del cosiddetto Nuovo Mondo. Imbarcato come cosmografo sulla flotta capitanata dallo spagnolo Alonso de Ojeda, approdò nei pressi dell’attuale Caienna, nella Guyana Francese. Ivi, assunto il comando di un gruppo di navi, si staccò dal resto della flotta con l’obiettivo di ricercare a sud il collegamento, come supposto da Colombo, con l’Asia Orientale. Navigando lungo la costa, scoprì il Rio delle Amazzoni per poi spingersi oltre senza però aver avuto la possibilità di doppiare Capo San Rocco, la punta estrema della costa nord-orientale brasiliana. Rientrato in Spagna, fu contattato a Siviglia dal sovrano portoghese Emanuele I per il tramite dell’italiano Bartolomeo del Giocardo, e invitato ad assumere la carica di primo pilota nella spedizione diretta in Brasile che si stava allestendo al comando di Gonçalo Coelho e il cui obiettivo era quello di trovare un cammino che dal Brasile conducesse alle Molucche. Vespucci accettò l’incarico, partendo nel 1501 con la spedizione del Coelho formata da tre caravelle. Costeggiarono prima l’Africa occidentale, per poi spingersi verso ponente, a sud della linea equatoriale. Approdati in Brasile, lo costeggiarono per 800 leghe, da 6° S a oltre 50° S, toccando Capo Freddo, poco più a nord dell’attuale Rio de Janeiro, e ancora più giù, fino ad arrivare in prossimità della foce del Río de la Plata.
Amerigo Vespucci rimase al servizio del Portogallo fino al 1505, per poi trasferirsi in Spagna, dove gli venne conferita la carica di piloto mayor, ossia, capo istruttore dei piloti del regno spagnolo, che detenne fino alla morte, occorsa nel 1512. Notevole come sappiamo fu la sua opera non solo di navigatore ma anche di cosmografo. Si sa che aveva l’abitudine di stendere i resoconti di tutti i suoi viaggi. Resoconti in cui annotava preziosissime indicazioni, quando non proprio veri studi astronomici, redigendo e correggendo alcune carte nautiche. Purtroppo poco o nulla è stato ritrovato della sua opera, all’infuori di alcune lettere, tra cui tre indirizzate a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici: una spedita da Cadice, il 18 luglio 1500, e concernente il suo primo viaggio, e le altre due, relative questa volta al secondo viaggio, inviate l’una, il 4 giugno 1501, dal Capo Verde e l’altra, priva di data, ma probabilmente del 1502, da Lisbona.
In questo lungo arco di tempo, in cui occorsero tutte le vicende ora riferite, furono moltissimi gli Italiani che si recarono in Portogallo – e non solo navigatori, commercianti, armatori e banchieri, ma anche diplomatici, nunzi apostolici, artisti, uomini di lettere e di scienza. Molti scelsero di risiedervi permanentemente, altri facevano la spola. Altri ancora si stabilirono in Brasile, occupando alte cariche.
Gli Italiani tuttavia furono a fianco dei Portoghesi anche nei momenti critici. Come in occasione dell’impresa di Al-ksar el Kebir, nel Nord Africa, voluta nel 1578 dal re Sebastiano e nel corso della quale l’esercito portoghese venne sconfitto dalle truppe marocchine. Dei 20.000 uomini che lo formavano (tra cui appunto vari Italiani, oltre a Spagnoli, Tedeschi e Olandesi, in tutto un migliaio di stranieri), circa 7.000 persero la vita, incluso lo stesso sovrano portoghese. Tantissimi furono fatti prigionieri. Più tardi molti di loro vennero riscattati e liberati (tra questi ultimi un nome su tutti, quello del bolognese Filippo Terzi, che ebbe grande fama in Portogallo, per avere ricoperto l’incarico di engenheiro-mor, ossia, di ingegnere capo, del regno sotto Filippo II, realizzando, tra il 1577 e il 1597, anno della sua morte, molte opere architettoniche, sia civili che religiose). Le conseguenze della fallimentare impresa di Al-ksar el Kebir – che rappresentò, dopo che il germe della decadenza aveva già da tempo iniziato a propagarsi, l’estremo e, per certi versi, nobile seppur folle tentativo da parte di Sebastiano di far sì che il suo Paese si riappropriasse del duplice ruolo perso, quello di difensore della Cristianità e quello di grande potenza imperiale – sarebbero state fatali per il Portogallo. Com’è noto, scomparso Sebastiano e dopo due anni di governo dello zio, il Cardinale Enrico, la Spagna, al culmine della sua potenza, riuscì con il duca d’Alba, comandante supremo degli eserciti di Filippo II, a occupare Lisbona e ad assoggettare il Portogallo alla monarchia filippina fino al 1640, anno della cosiddetta Restaurazione.
(Fine)
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