Non vi è dubbio che la rapida ascesa a grande potenza marittima conseguita dal Portogallo tra il XV e il XVI secolo – e che lo portò praticamente a monopolizzare a lungo, con le sue caravelle-scopritrici, il commercio europeo da e per le “Indie” – venne favorita in primis dalla sua posizione geografica. Lisbona, in particolare, città distesa lungo l’ampia foce del Tago, offriva alla navigazione oceanica un riferimento migliore di ogni altro porto europeo, divenendo presto, e già a partire dai primi del XIII secolo, l’emporio privilegiato dei traffici commerciali tra i paesi del Mediterraneo e quelli del Nord Europa. Ciò giustifica il fatto che le nostre Repubbliche marinare, Genova su tutte, ne avessero fatto una specie di loro porto nazionale, con numerosissimi naviganti e commercianti italiani che vi si stabilirono, organizzando in loco traffici e spedizioni navali.
I sovrani portoghesi manifestarono – nelle parole di Luís de Albuquerque –
«fin da subito un grande interesse nel far convogliare nei porti del Paese, soprattutto in quello di Lisbona, il commercio che era in mano agli stranieri, principalmente ai mercanti mediterranei. Per lo meno fino alla prima metà del XIV secolo i sovrani portoghesi favorirono questo commercio, sia perché riforniva il Paese di oggetti (tessuti, articoli di lusso e armi) necessari alla vita dei signori feudali sia perché rappresentava per la corona una buona rendita considerando l’insieme dei diritti doganali riscossi. Per attrarre questo commercio, i sovrani portoghesi concedevano lettere assicurative e garantivano varie regalie a tutti quei fiorentini, genovesi, ecc. che, intenzionati a dedicarsi a una vita d’affari, si fossero stabiliti nel Paese» (ALBUQUERQUE, s. d.: 24).
A questo riguardo, vi è anche la testimonianza autorevole dello storico quattrocentesco Fernão Lopes, il quale, nella sua Crónica de D. Fernando (l’ultimo sovrano della dinastia dei Borgogna, che regnò dal 1367 al 1383), scrive:
«C’erano […] a Lisbona residenti provenienti da molte terre, che appartenevano non a una sola casa commerciale ma a molte case commerciali di una stessa nazione, così come Genovesi, Piacentini e Lombardi […] e di Milano, che chiamavano Milanesi […], ai quali i re concedevano privilegi e libertà […]: e questi facevano arrivare, e inviavano dal regno grandi e abbondanti mercanzie […]» (LOPES, 1979: 5).
Cosicché, nel corso di tutto il secolo XIV, partendo dal porto di Lisbona, commercianti e navigatori italiani, al comando di navi proprie o portoghesi, affrontavano le acque oceaniche. E si spingevano, scoprendo o riscoprendo nell’Atlantico le coste e le isole dell’Africa nordoccidentale, verso quello che allora veniva definito il Mare Tenebroso, per poi fissare nelle cosiddette carte da navigare – le odierne “carte nautiche” – il risultato dei loro viaggi. Allo stesso tempo, istruivano gli equipaggi portoghesi nella navigazione in mare aperto – un tipo di navigazione, peraltro, in cui i Portoghesi, assieme agli Spagnoli, avrebbero in breve dominato e fino a tutto il secolo XVI.
Questa preminenza della marina italiana durante il Medioevo, e che in passato alcuni storici portoghesi e spagnoli avevano messo in dubbio, è stata nel corso degli ultimi venti/venticinque anni, alla luce di più approfonditi studi e ricerche, ampiamente dimostrata. Si pensi, ad esempio, ai tanti lavori pubblicati dal già citato Luís de Albuquerque, che ha contribuito, forse più di chiunque altro, a mettere ordine in tale intricatissima materia, sfatando, con dati di fatto spesso incontrovertibili, alcune tesi esageratamente di parte (ALBUQUERQUE, 1997).
Questi stessi studi attestano anche che, mentre nel corso del XII secolo già le navi delle Repubbliche marinare, in particolare quelle di Genova, veleggiavano lungo le coste lusitane e galiziane, spesso approdandovi per motivi commerciali o schivare le tempeste, i Portoghesi restavano praticamente estranei all’attività nautica di grande cabotaggio. Oltretutto paventavano l’apparire delle navi normanne e saracene, spesso portatrici di distruzione e morte. In quei frangenti, gli abitanti costieri fuggivano nelle caverne e sui monti, restandovi fino alla cessazione del pericolo.
Sempre nel corso del XII secolo si acuì la lotta contro i Saraceni per la riconquista della Penisola Iberica. I Portoghesi, insieme ai Castigliani, non potevano tuttavia assolutamente competere con loro. Privi di navi adeguate, non erano in condizione di espugnare le coste e le città marittime saldamente in mano al nemico. E così compresero la necessità di formare una buona marineria, progetto che per essere realizzato necessitava dell’aiuto e dell’ammaestramento da parte delle marine veneziana e genovese, soprattutto di quest’ultima, agguerrita e molto rispettata dagli stessi Saraceni.
Tutte le cronache genovesi dell’epoca attestano tale concorso militare. Secondo una non ben precisata fonte, nel 1103, quando ancora il Portogallo era una contea del Regno di Castiglia, il conte Enrico di Borgogna avrebbe effettuato la sua prima crociata contro gli “infedeli” valendosi dell’aiuto di navi genovesi. Pochi anni dopo il vescovo compostellano Gelmírez inviava un’ambasciata a Pisa e Genova per invitare costruttori e uomini di mare a recarsi in Galizia. È noto in tal senso come intorno al 1110-1113 i Genovesi abbiano costruito proprio in Galizia delle galee, con le quali combatterono contro i Saraceni. Una lotta peraltro che risaliva al secolo anteriore, più precisamente al 1015-1016, quando Pisa e Genova, allora alleati nell’opera di Riconquista delle terre cristiane, li debellarono in Corsica e in Sardegna. Poco più tardi, quando già il Portogallo si era reso indipendente dalla Castiglia, costituendosi come regno, il sovrano portoghese Alfonso I, a quanto sembra, si sarebbe servito del concorso, oltre che di una flotta proveniente dal Nord Europa e diretta in Terra Santa, anche di alcune navi genovesi per riconquistare agli Arabi, nel 1147, Lisbona.
Alla fine del XIII secolo vi fu da parte del re Dionigi il tentativo di dare forma a una marineria nazionale affidandone il comando ad ammiragli portoghesi. Costatatone però il fallimento si sarebbe rivolto alla famiglia genovese dei Pessagno – una tra le più ricche famiglie di armatori e commercianti allora residenti a Lisbona, colà stabilitasi per meglio dirigere i suoi traffici tra Genova e le Fiandre. I Pessagno disponevano di molte navi, comandanti, piloti ed equipaggi audaci ed esperti. Potrebbe a prima vista stupire il fatto che un sovrano si rivolgesse a dei mercanti, per giunta stranieri, per organizzare la propria marina da guerra. C’è da dire, tuttavia, che le navi dei Pessagno, così come quasi tutte le navi mercantili dell’epoca, erano navi armate, e così bene da non esserci quasi nessuna differenza tra una flotta mercantile e una squadra navale da guerra.
È del 1° febbraio 1317 l’ormai noto decreto con cui il re Dionigi affidava il comando supremo della Marina Reale portoghese a Emanuele Pessagno. I suoi compiti, per i quali si fece coadiuvare da una ventina di capitani, anche loro genovesi, consistevano nel sovrintendere alle costruzioni delle navi e alle esercitazioni degli equipaggi, in tempo di pace, e nell’organizzare e comandare le armate, in tempi di guerra. In cambio delle proprie prestazioni Emanuele Pessagno ebbe assicurata dal re la promessa, sancita da contratto, della «perpetuità della dignità di Ammiraglio» per i suoi discendenti (BELGRANO, XV, 1881). C’è anche da dire come la dignità di Ammiraglio non escludesse quella di Armatore, e ciò prova l’importanza del traffico commerciale gestito direttamente dai Pessagno: un vantaggio in termini economici tanto per loro quanto per la stessa corona portoghese.
Tra gli storici portoghesi vi è stato in passato chi ha messo in dubbio – è il caso di Damião Peres – l’alto contributo dato al regno portoghese da Emanuele Pessagno e dai suoi uomini. Una tesi, tuttavia, completamente destituita di fondamento. E qui ricorro ancora una volta a Luís de Albuquerque, che scrive:
«l’arte nautica portoghese, contrariamente a quel che è stato scritto […], non poteva essere molto sviluppata, poiché, volendo modernizzare la marina, occorreva che tale arte nautica fosse integrata nella tecnica più avanzata dell’epoca, quella dei navigatori del Mediterraneo. Pur se non suffragato da alcun documento scritto, è ipotizzabile il fatto che i genovesi contattati conoscessero l’uso della bussola, fossero addentro nei segreti della valutazione della distanza e sapessero consultare la carte nautiche che alcuni dei loro compatrioti disegnavano; in sostanza, dovevano essere uomini capaci di usare e insegnare a coloro che probabilmente la disconoscevano quella stessa arte di navigare che, per lo meno a partire dalla seconda metà del XIII secolo, veniva praticata da catalani e italiani» (ALBUQUERQUE, s. d.: 43-44).
Della grande importanza e dell’alto contributo dato al Portogallo da Emanuele Pessagno e dalla sua gente ne era a conoscenza anche la Santa Sede. Lo attesta una bolla di Benedetto XII, del 1341, indirizzata al sovrano Alfonso IV e il cui scopo era l’appello a organizzare una crociata contro gli Arabi. Nel preambolo di questa missiva papale, scritta in latino, si legge:
«In virtù del fatto che il sopraddetto regno di Algarve si situa alla frontiera e confina con i sopraddetti nemici e che la guerra sarebbe stata più facile e avrebbe recato maggior danno agli avversari se questi fossero stati attaccati, con galee e altre imbarcazioni atte allo scopo, da persone abili nell’arte della guerra in mare, il re Dionigi, tuo padre, fece venire nel suo regno, da terre lontane, un uomo conoscitore di cose marine e di guerra navale, e lo nominò ammiraglio dei suoi regni ben ricompensandolo. Questi fece costruire galee e altre navi appropriate, e rese la gente portoghese così esperta e audace in tutte le cose che concernono la guerra navale, per mezzo della pratica e della messa in atto delle stesse, che difficilmente si sarebbe potuto trovare un altro popolo più competente, non solo per la difesa dei sopraddetti regni ma anche per la poderosa espulsione dei sopraddetti nemici. E, dopo la morte di tuo padre, tu hai mantenuto al tuo servizio il sopraddetto ammiraglio, dandogli inoltre maggiori onori, e tramite lui, con gente dei tuoi regni, hai ancora causato molti e gravi danni a quegli stessi nemici […]» (riportato in: MARQUES, 1944-1971: I, 64).
A proposito di crociate, il 1291 fu un anno fatidico per la civiltà mediterranea. Difatti, dopo la VII Crociata, quella del 1270, organizzata da Luigi IX il Santo e decimata a Tunisi da una pestilenza (lo stesso sovrano francese vi avrebbe trovato la morte), in quell’anno del 1291 il sultano d’Egitto riusciva a espugnare San Giovanni d’Acri, allora ultimo baluardo cristiano. Da quel momento veniva contesa agli europei la libertà di traffico su una delle vie marittime più battute, quella che univa i porti del Mar Nero, della Siria e dell’Egitto con l’Occidente. È risaputo come dalla Persia, dall’India e dalla Cina arrivassero a Trebisonda, Giaffa e Alessandria le spezie, le pietre preziose, i profumi ed i tessuti, che venivano successivamente imbarcati sulle navi delle Repubbliche Marinare e trasportati fino ai porti non solo mediterranei di Grecia, Italia e Spagna ma anche, oltre lo Stretto di Gibilterra, nei porti portoghesi e galiziani e in quelli della Bretagna e delle Fiandre.
Dal momento in cui, tuttavia, tutti i porti del Levante erano caduti nelle mani degli Arabi e dei Turchi, che imponevano fortissime tassazioni sia al passaggio sui loro territori che all’imbarco delle merci, i navigatori ed i mercanti italiani, primi tra tutti Genovesi e Veneziani, si videro costretti a trovare altre soluzioni.
Com’è noto quel che allora si conosceva in campo geografico era viziato da profonde inesattezze. Si aveva però la certezza che il Mar Rosso separava il continente asiatico da quello africano. La grossa incognita era rappresentata dalla parte meridionale dell’Africa, della cui estensione si avevano solo vaghe notizie. Alla fine del XIII secolo le conoscenze nautiche sull’Africa erano praticamente limitate alla parte settentrionale atlantica.
E così, vedendosi preclusa la via mediterranea per l’Oriente, i navigatori italiani, segnatamente i Genovesi, avrebbero concepito (uso il condizionale, visto il disaccordo esistente, in parte ancora oggi, tra gli studiosi su tale tesi) l’ardito e pieno di incognite disegno di circumnavigare l’Africa al fine di accedere direttamente ai regni di Calicut, del Catai e di Cipango, dei quali peraltro si avevano notizie dai viaggi compiuti in terraferma.
Tale disegno risalirebbe al 1291. Difatti, nella cronaca di Jacopo Doria – l’ultimo dei continuatori degli Annali del genovese Caffaro, e che riferisce la storia di Genova dal 1280 al 1294 (testo riportato in: BELGRANO, XIV, 1881) – si parla di una spedizione organizzata in quell’anno dall’armatore Tedisio Doria, figlio di un fratello dello stesso compilatore, che allestì due galee, capitanate dai fratelli Ugolino e Vadino Vivaldi con l’incarico di costeggiare l’Africa occidentale. Le due galee, la Sant’Antonio e l’Allegranza, salparono nel maggio del 1291 da Genova, veleggiando in direzione di Ceuta, da dove inviarono notizie dopo circa un mese di navigazione. Da allora, tuttavia, non avrebbero dato più segnali.
Circa un secolo e mezzo dopo, nel 1455, si sarebbero avute notizie sull’esito di quella impresa, per merito di un altro esploratore genovese, Antoniotto Usodimare. Questi, secondo quel che è riportato nel preteso Itinerario di Antoniotto Usodimare (sostanzialmente una raccolta manoscritta di notizie e leggende riguardanti la navigazione, compilata da un anonimo e contenente anche una copia di una lettera dello stesso Usodimare, questa sì autentica e indirizzata da Lisbona ai suoi creditori genovesi), avrebbe saputo, nel corso del suo primo viaggio lungo la costa settentrionale africana, da un meticcio, incontrato in un imprecisato luogo situato tra i fiumi Senegal e Gambia, e dichiaratosi discendente dei Vivaldi, che una delle due galee si era arenata in un basso fondale, mentre l’altra aveva continuato il viaggio in direzione del Mare di Guinea, per poi giungere in una imprecisata località, riportata nella raccolta con il nome di “Mena”. Questa località, secondo alcuni studiosi, era situata in Etiopia. Quindi, se così fosse, sulla costa orientale africana, il che avrebbe comportato chiaramente la circumnavigazione dell’Africa, alquanto improbabile tuttavia; anche se invero nel manoscritto si parla – cito dal volume I navigatori portoghesi sulla via delle Indie di Gaetano Ferro, che riporta alcuni brani dell’Itinerario – di «una città d’Etiopia, di nome Mena», situata sulla costa, «presso il fiume Sion», dove i marinai genovesi «furono presi e trattenuti prigionieri dagli abitanti di quella città, che sono Cristiani d’Etiopia, soggetti alla giurisdizione del Prete Gianni» (FERRO, 1974: 39).
A questo proposito, lo stesso Gaetano Ferro, oltre a mettere sull’avviso il lettore circa le «molte incertezze» (IBIDEM) presenti nell’Itinerario di Usodimare, dovute in gran parte a «correzioni posteriormente apportate al documento» (IBIDEM: 40), e a suggerire l’identificazione del «fiume Sion» con il Senegal, «che la tradizionale cosmografia medievale considerava come un ramo del Nilo» (IBIDEM: 39), scrive:
«Assai probabilmente, questa che fa arrivare i Vivaldi sino all’Etiopia è solo una leggenda, connessa con quelle tradizionali, correnti nel tardo Medioevo, a proposito dei Cristiani del Prete Gianni e del regno di quest’ultimo, e per effetto di esse inseritasi nei racconti che riguardavano la fine toccata agli intraprendenti Genovesi» (IBIDEM: 41-42).
Quanto ad Antoniotto Usodimare, era questi un nobile genovese, nonché commerciante e avventuriero che fu costretto a espatriare per dissesti economici e debiti accumulati con molti creditori. Nel 1451 si rifugiò in Portogallo. Ivi riuscì a ottenere licenza dal principe Enrico il Navigatore (il quale, nel 1443, dopo aver ricevuto dal fratello Pietro, allora reggente, il monopolio dei diritti sulla navigazione, sulla guerra e sul commercio a sud del Capo Bojador, aveva trasferito in Algarve la sua residenza abituale, vivendo praticamente fino alla morte, occorsa nel 1460, lungo la fascia costiera tra Lagos e Sagres) di recarsi in Guinea allo scopo di compiere esplorazioni e commerciare con gli indigeni. Si spinse fino alla foce del fiume Gambia, a sud del Capo Verde. Mentre veleggiava in mare aperto incontrò il veneziano Alvise Da Mosto (o Cadamosto). Questi, allora giovane pilota ventiduenne, nell’agosto del 1454 si era imbarcato a Venezia, insieme al fratello Antonio, su una galea facente parte di una flotta mercantile diretta nelle Fiandre. Giunto in settembre nei pressi del Capo San Vincenzo, in Algarve, dove la flotta fu costretta a fare sosta a causa dei venti contrari, non proseguì il suo viaggio poiché affascinato dalle esplorazioni che i Portoghesi stavano allora compiendo sotto la sapiente guida del principe Enrico, che tra l’altro ebbe occasione di incontrare. Nella sua relazione – cito dall’edizione curata, nel 1966, da Tullia Gasparrini Leporace – il Da Mosto scrive:
«Essendo io rimaso al Cavo San Vizenzo nel modo sopradito, il dito signor [ossia il principe Enrico] mostrò haver grande apiacer del mio romagnir e mi fece festa asai; e da poi molti e molti zorni me fece armar una caravella de portada zercha bote 90, nova, del qual giera patron uno Vinzente Dies, natural de Lagus, ch’è un logo apreso Cavo San Vizenzo a milia 16. E fornita de tute cosse necessarie al viazo nostro, con el nome de Dio e in bona ventura partissemo dal sopradito Cavo San Vizenzo a dì 22 marzo 1455, con vento grieco e tramontana in pope, drizando il nostro camin verso l’Isola de Medera, andando a la quarta de garbin verso ponente a via drita» (GASPARRINI LEPORACE, 1966: 13-14).
Alvise Da Mosto avrebbe poi toccato l’isola di Porto Santo (ricordo come quest’isola dell’arcipelago di Madeira fosse amministrata, e già da tempo e per conto del principe Enrico, dal piacentino Bartolomeo Perestrelo – com’è noto, una figlia di questi, Filippa, sarebbe poi andata in sposa, nel 1479, a Cristoforo Colombo), le Canarie, Capo Bianco e la foce del Senegal. Incontratosi con Antoniotto Usodimare, i due procedettero di conserva la navigazione. Superato il Capo Verde (già doppiato, alla fine del 1444, dal portoghese Dinis Dias), giunsero alla foce del Gambia, con l’intento di risalirlo e commerciare con gli abitanti del luogo. Incontrarono tuttavia forte resistenza da parte degli indigeni. Cosicché i due navigatori italiani decisero di far ritorno in Portogallo, dove giunsero nel dicembre di quello stesso anno. L’impresa fu ritentata dagli stessi l’anno seguente, nel 1456. Oltrepassato Rio Grande, l’odierno fiume Geba, si spinsero fino alle Isole Bissagos. A quanto sembra, nel corso di questa seconda navigazione avvenne anche la scoperta di alcune isole orientali dell’arcipelago di Capo Verde. Scrive Tullia Gasparrini Leporace nell’Introduzione al volume già richiamato:
«Il racconto che di essa ci ha lasciato Alvise ha dato motivo a sospetti e a polemiche per il passo che riferisce la suddetta scoperta [appunto quella di alcune isole dell’arcipelago di Capo Verde], di cui il Da Mosto si attribuisce il merito; ma la semplicità ed attendibilità di tutta l’esposizione e la precisazione dei limiti della scoperta – un semplice avvistamento, al quale non fu data molto importanza – non fanno dubitare della sincerità del Veneziano» (IBIDEM: XI-XII).
(Continua. Domenica prossima la seconda parte del focus)
Bibliografia di riferimento
– ALBUQUERQUE, Luís de, 1997. Dúvidas e Certezas na História dos Descobrimentos Portugueses. Círculo de Leitores, Lisboa: 2 voll.
– ALBUQUERQUE, Luís de, s. d. (3ª ed. revista). Introdução à História dos Descobrimentos Portugueses. Publicações Europa-América, Lisboa.
– BELGRANO, Luigi Tommaso, 1881. Documenti e genealogia dei Pessagno genovesi. Ammiragli del Portogallo. In «Atti della Società Ligure di Storia Patria», Genova, XV: 13-18.
– BELGRANO, Luigi Tommaso, 1881. Nota sulla spedizione dei Fratelli Vivaldi nel MCCLXXXXI. In «Atti della Società Ligure di Storia Patria», Genova, XIV: 317 e ss.
– FERRO, Gaetano, 1974. I navigatori portoghesi sulla via delle Indie. U. Mursia editore, Milano.
– GASPARRINI LEPORACE, Tullia, 1966, (a cura di). Le navigazioni atlantiche del veneziano Alvise Da Mosto [volume V de Il nuovo Ramusio]. Istituto Poligrafico dello Stato / Libreria dello Stato, Roma.
– LOPES, Fernão, 1979, (com uma introdução pelo Prof. Salvador Dias Arnaut). Crónica do senhor Rei Dom Fernando nono rei destes regnos. Livraria Civilização Editora, Porto.
– MARQUES, J. Martins da Silva, 1944-1971. Descobrimentos Portugueses. I.C.A.L.P., Lisboa: 3 voll.
Quello che è storicamente triste è che un Regno di 900.000 italiani aveva un gran impero coloniale, mentre noi facevamo i mercenari o gli accattoni!