E’ di qualche giorno fa la notizia che il Consiglio di Stato ha bocciato, per la seconda volta, il diniego espresso dal Tar, per presunti vizi procedurali, della richiesta di rendere pubblici gli accordi segreti tra Italia e Stati Uniti che regolano la presenza e l’uso dei droni militari Usa nella base aeronavale di Sigonella, in Sicilia.
La questione
E’ una vicenda che va avanti da quattro anni, da quando Chantal Meloni, professoressa di diritto penale dell’Università Statale di Milano e consulente legale del “Ecchr-Centro europeo per i diritti umani e costituzionali” di Berlino, chiese al governo italiano e al Comando di Sigonella di accedere a quegli atti. Avendo il ministro della Difesa respinto la richiesta perché la divulgazione di materiale segreto potrebbe causare pregiudizio alla sicurezza nazionale e alle relazioni internazionali dell’Italia, gli avvocati della docente proposero ricorso al Tar che lo respinse perché il ricorso non era stato notificato anche agli Stati Uniti che, da parte loro, avevano comunque rifiutato la notifica di un atto pregiudizievole della propria sovranità. Poi intervenne il Consiglio di Stato nell’ottobre del 2019 che bocciò l’ordinanza del Tar e adesso si è ripetuto nei confronti di una seconda sentenza analoga di quel tribunale. Vedremo come andrà a finire e se, finalmente, riusciremo a sapere qualcosa a proposito delle regole a cui i militari statunitensi dovrebbero attenersi, ma ne dubitiamo.
La questione ha destato poco interesse nel mondo politico e nell’opinione pubblica italiani in tutt’altre faccende affaccendati. Eppure, si tratta di un tema essenziale che mette in gioco la sovranità del nostro Paese e le sue responsabilità nelle azioni militari intraprese da una potenza straniera sfruttando la base di partenza nel nostro territorio. Per semplificare, se il bombardamento di un aereo statunitense a pilotaggio remoto, impegnato in una delle tante incursioni contro i “nemici” degli statunitensi causasse, come “effetto collaterale”, una strage di civili, sarebbe difficile, per l’Italia, dal cui territorio il velivolo era partito, sfuggire alla corresponsabilità politica e militare di quella azione. Non ci stiamo inventando scenari irreali, perché alcune organizzazioni internazionali hanno già denunciato, in passato, l’uccisione di alcuni civili nel corso di bombardamenti effettuati in Libia da droni Usa partiti da Sigonella.
Nel 2016 sono stati firmati con le autorità statunitensi i patti segreti che regolano l’attività militare dei droni nella base siciliana da parte del governo Renzi il quale dichiarò che sarebbe toccato all’Italia decidere, caso per caso, l’autorizzazione alle azioni di guerra. A parte la difficoltà di controllare l’effettiva applicazione di questa clausola di un accordo segreto, l’autorizzazione, nel caso di disastri come quelli precedentemente indicati, accentuerebbe, in modo clamoroso, la nostra responsabilità: non solo saremmo il Paese da cui è partito l’attacco, ma l’avremmo pure deciso. In ogni caso, i droni Usa di Sigonella hanno colpito ben prima dell’accordo del 2016, agendo senza alcuna autorizzazione italiana. In Siria e, soprattutto, nella guerra in Libia dove sono stati parte attiva del massacro di Gheddafi e della sua scorta. Ben pochi lo sanno, ma il primo missile contro il convoglio del capo libico venne lanciato da un Predator partito dalla base siciliana. Non si ha notizia che il nostro governo abbia avuto qualcosa da dire agli americani in quello che, a prescindere da cosa si pensasse del rais, fu un disgustoso linciaggio…
La presenza delle ex forze di occupazione statunitensi sul nostro territorio, a “soli” 76 anni dalla fine della guerra, non è un argomento di discussione sui giornali e fra gli intellettuali, a parte alcune ristrette minoranze. Secondo la grande maggioranza dei giuristi, gli accordi segreti, come quelli di Sigonella e gli altri che regolano l’uso delle basi Nato e Usa in Italia, non sarebbero legittimi dal punto di vista costituzionale, non avendo le Camere, ovvero il popolo, alcun controllo su di essi, ma figuriamoci quanti possono indignarsi per questo fatto in un Paese che accetta tranquillamente di essere ancora sottoposto alle clausole segrete del Trattato di pace di Parigi del 1947!
Le truppe (di occupazione?) statunitensi in Italia ammontano a circa 16mila soldati stanziati nelle 8 basi ufficiali Usa a cui vanno aggiunte una serie di siti minori per un totale di oltre 110 installazioni, oltre alle zone riservate ai soli militari di Washington nelle basi Nato e al fatto che alcune basi italiane sono a loro disposizione in caso di bisogno. Il loro status è stato ben chiarito da un esperto come l’ex generale Fabio Mini sulla rivista “Limes”: “Gli accordi bilaterali successivi all’ingresso dell’Italia nella Nato (1949) hanno soltanto rilegittimato la presenza statunitense di occupazione sotto il nuovo cappello Nato che comunque era assunto dal Comando Alleato in Europa (Usa) con il nome di Supremo Comando Alleato d’Europa. Da allora, la denominazione Nato è stata spesso usata per indicare la base appartenente a un paese membro dell’Alleanza Atlantica non necessariamente per scopi della Nato. Nella sostanza, la presenza militare in Italia è un fatto prettamente bilaterale e la disponibilità delle basi per altre forze Nato, comprese quelle italiane, anche in esercitazione, se non è diversamente stabilito, è una prerogativa esclusiva degli Stati Uniti”. In parole semplici, la Nato è la foglia di fico che nasconde la situazione di essere servi in casa propria. Come testimonia anche il particolare ridicolo e offensivo che se gli Stati Uniti decidono di dismettere una propria base, secondo gli accordi l’Italia deve pagargli un rimborso per la “riqualificazione del territorio”.
Si sente talvolta affermare che anche in Italia, come nel resto dell’Occidente, è nata in questi anni una nuova sensibilità ecologica, eppure nessuno si preoccupa della presenza sul nostro territorio delle bombe atomiche statunitensi. Si tratta di 40 ordigni nucleari, 20 nella base di Ghedi e 20 in quella di Aviano, per la cui conservazione l’Italia spende una cifra vicina ai cento milioni di euro all’anno. E’ stato calcolato che un attentato o un grave incidente in uno dei due siti potrebbe causare un fungo radioattivo tale da colpire tra i due e dieci milioni di persone. E questo in un Paese che, per evitare pericoli, ha scelto di chiudere la propria produzione nucleare civile, con conseguente aggravamento della bolletta energetica nazionale. Per le bombe atomiche Usa, però, nessuno scende in piazza: meglio farsi delle belle passeggiate in allegria per i Fridays for Future in nome dell’icona del marketing ambientalista Greta.
Nel 2017, durante una conferenza Onu, è stato promosso il Trattato per la proibizione delle armi nucleari (TPNW) al quale finora hanno aderito oltre 50 Stati, per lo più piccoli, senza il sostegno, ovviamente, di alcun Paese in possesso di armi atomiche o che, come il nostro, le ospiti per conto d’altri sul proprio territorio. Il trattato mira a mettere fuori legge tutte le bombe nucleari, a qualsiasi Paese appartengano, ed è chiaramente, lo capiamo bene, un’iniziativa dai tratti utopici. Nondimeno, se si volesse sposare una causa ideale, dove l’aggettivo umanitario non è il solito inganno per celare la volontà di una potenza, ma può essere speso con pieno diritto, questa sarebbe la causa da abbracciare.
Affinché la guerra post-eroica, quella vigliacca dei droni che non prevedono nemmeno il remoto rischio per il pilota di essere abbattuto dalla debole contraerea dei Paesi poveri che va a bombardare, trovi almeno l’opposizione delle opinioni pubbliche prima di potersi trasformare in olocausto nucleare.
In un Paese senza dignità come il nostro non è che una sentenza in più, una in meno, cambino qualcosa…