Santo è l’uomo che trascende la sua condizione e diventa eterno incarnando il divino. Non è una provocazione, dunque, se Paolo Isotta ha intitolato a San Totò l’ultima sua opera uscita da Marsilio.
Per Isotta, Totò è al pari di Virgilio e quasi di San Gennaro. Lo scrive nell’introduzione. La santità totoana è stata popolare e per un lungo periodo la sua tomba, a Santa Maria del Pianto, è stata meta di pellegrini devotissimi che, talora, gli chiedevano grazie. A lui direttamente: la pratica religiosa napoletana, non sapendo che farsene della teologia dell’intermediazione cattolica, faceva dei santi numi potentissimi e divini che da sé decidevano se e come esaudire le richieste dei propri fedeli.
Dove risiede la divinità di Totò? Nell’essere maschera. Non nell’impersonarla, nel portarla, nell’onorarla: esserlo. Oggi ancora a distanza di mezzo secolo e più dalla fine della sua parabola terrena. Una maschera terribile che, non a caso, gli causò montagne di guai e problemi con la censura. Quella democristiana persino più di quella fascista, Isotta lo nota: erano gli stessi funzionari passati quasi gattopardescamente a continuare il loro lavoro cambiandone l’oggetto: col Regime stroncavano disfattismi e a sanzionavano “rumoreggiamenti”, con la Dc dovettero badare alle offese al comune senso della morale piccolo borghese, alla sensibilità permalosa dei preti e a perseguire l’obiettivo papalino del cinema della “sana letizia popolare”.
Totò fu ed è tutt’altro. Paolo Isotta rintraccia le radici dell’arte dei De Curtis nella commedia plautina e in quella aristofanea. Non proprio un intrattenimento innocente per famiglie. Trova nelle Fabulae Atellane, antichissima forma di teatro italico e campano, l’archetipo totoano: Dossennus, il servo gobbo, astuto e malizioso. Totò non è irriverente, è sovversivo. Il celeberrimo sketch del Wagon Lit non è (solo) una divertentissima scena comica: è un bombardamento totale: i lazzi del Principe rappresentano un’arma capace di mandare in pezzi ogni costruzione sociale. Non critica l’autorità, Totò; la fa a pezzi.
Perciò, epifania della Maschera, è immenso nel Comico e nel Tragico. Non lo è nel Patetico, eppure alcuni – sempre troppi – registi ci provarono a fare di lui un personaggio. Su tutti Pasolini che, seppure fu un genio che aveva compreso quanta cattiveria ci fosse alla base della comicità e di quella di Totò in particolare, volle farne, come in Uccellacci e Uccellini, “un implume” di bontà. Il Principe era di ciò entusiasta: dopo decenni passati a lasciarsi massacrare dalla critica, non gli parve vero ritrovare prestigio nell’intelligencija italiana. Ma fu un errore che Isotta sottolinea con la penna blu. Per dirla, dal cinema al calcio: fu come avere avuto Maradona in squadra e averlo schierato terzino destro.
Il libro “San Totò” è una delizia. Si compone di due parti: la prima è dedicata all’uomo e all’artista. Dagli inizi nella Rivista fino ai funerali; la vita tumultuosa tra capovolgimenti, fame, tragedie personali. Il rapporto con Napoli e con il suo teatro: da Scarpetta ai De Filippo (Isotta illumina il genio di Peppino deplorando l’affettazione piccoloborghese di Eduardo), da Antonio Petito a Raffaele Viviani; la morte che ne sancì l’ascesa al Cielo a ragione dei miracoli della Maschera.
Come nacque, dove fu scolpita e come irradiò felicità, in forma di attimi di dimenticanza, al pubblico che ebbe a seguirlo al cinema e, a maggior ragione, a teatro. Il grande cruccio di Isotta è proprio questo: non averlo visto a teatro dove, come gli raccontò suo padre, De Curtis era ancora più gigantesco: “Chi non ha visto Totò a teatro, non ha visto Totò”.
La seconda parte è dedicata ai film. Una scheda per ogni pellicola. Non tutti capolavori ci furono anche alcuni lavori che avrebbe potuto risparmiarsi: Isotta tanto celebra la grandezza degli uni quanto deplora gli sbagli e gli errori degli altri. Qui, come nella prima parte, emerge la devozione autentica che l’autore porta a Totò. Che però è vera solo in quanto non è adorazione acritica. Sa di maneggiare qualcosa di estremamente prezioso, di pericoloso. Lo fa da innamorato, non da critico. E si sente.
San Totò è un inno all’amore al Teatro che è vita davvero perché affonda le sue radici nel divino. Un inno a Totò, ultima epifania tradizionale della Maschera. E l’ultimo sberleffo agli onorevoli Trombetta, ai “caporali” che per decenni lo hanno odiato (non potendolo capire o avendone capito fin troppo bene le potenzialità “sovversive”) invidiando chi, invece, ha avuto la grazia di poterlo amare.
San Totò, 302 pp, 19 euro, Marsilio
…oltre ad essere monarchico laurino… (per sua affermazione).