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Giornale di Bordo. La vera storia della “Fiamma dimezzata”

L'esperienza della scissione di Democrazia nazionale e gli effetti sul Msi alla luce degli studi del prof. Giuseppe Parlato

by Enrico Nistri
1 Marzo 2021
in Cultura
3
La Fiamma dimezzata di Giuseppe Parlato

La recensione di Andrea Scarano al saggio di Giuseppe Parlato La Fiamma dimezzata (per Luni), dedicato alla scissione di Democrazia Nazionale, ha evocato in me svariati ricordi. Fra l’ascesa di Almirante alla segreteria del Msi e la scissione demonazionale, ovvero fra il 1969 e il 1976, si colloca la mia prima esperienza politica all’interno della destra, dolorosa sotto il profilo esistenziale, ricca di stimoli sotto quello culturale. Parlato è uno dei più seri, forse il più serio, studioso del neofascismo. Il suo Fascisti senza Mussolini è imprescindibile per capire le origini del Msi, le sue intime ragioni e i suoi limiti. Leggerò il suo ultimo saggio con la stessa attenzione con cui lessi il precedente, oltre che per stima dell’autore, anche perché credo di potervi ritrovare la storia di una parte della mia vita. Sin d’ora, però, sorgono spontanee in me alcune considerazioni e valutazioni, credo non prive di attendibilità nonostante che non abbia potuto disporre della ricca documentazione di cui si è avvalso Parlato (ricca, ma non ricchissima, perché gli archivi del Msi vennero distrutti all’epoca della persecuzione giudiziaria degli anni Settanta, per salvaguardare gli iscritti).

La mia opinione personale è che Almirante fu nel 1969 l’uomo giusto al posto sbagliato: fu un attore (il paragone non è impertinente: veniva da una famiglia di teatranti) chiamato a recitare un copione che non era il suo. Fu un uomo della sinistra sociale chiamato a divenire il fondatore della destra nazionale; fu un figlio del neofascismo chiamato ad aprire il suo partito a militari che dopo l’Otto Settembre avevano combattuto con le Forze Armate del Regno del Sud (l’ammiraglio Birindelli) o addirittura, come il generale De Lorenzo, avevano svolto attività partigiana, nonché a quanto restava del partito democratico italiano di unità monarchica. Praticò sempre questa politica, ma con una sottile riserva psicologica, della quale l’esperimento della Destra Nazionale finì per pagare le conseguenze. La sua esperienza politica, a parte la giovanile militanza nel Guf, cominciò nella Rsi, come capo di gabinetto di Mezzasoma, e alla Rsi Almirante rimase psicologicamente ancor prima che politicamente fedele fino agli ultimi anni della sua segreteria. Ogni volta che il suo partito si avvicinava all’area di governo – nel 1972, quando nel Msi-Dn qualcuno avrebbe voluto l’astensione dinanzi al governo neocentrista Andreotti-Malagodi, dieci anni dopo dinanzi alle avances di Craxi – tornò alla retorica massimalista. Lo fece nel giugno del 1972 in un comizio al cinema Apollo di Firenze, in cui prospettò  lo “scontro frontale” (o fisico? Non si è mai capito) contro i contestatori, nel gennaio del 1985 col discorso milanese del Lirico (sede scelta non casualmente) in cui evocò il genius loci mussoliniano. A differenza del suo storico rivale e predecessore Arturo Michelini, che era leggermente strabico da un punto di vista fisico (e per questo portava sempre gli occhiali da sole), Almirante fu strabico psicologicamente: apriva ai monarchici e agli ex “badogliani”, ma l’“ignobil otto di settembre” rimaneva per lui una discriminante politica. Certo, il suo spessore culturale e le sue capacità oratorie erano molto superiori rispetto al suo predecessore, che aveva un semplice diploma di ragioniere, ma le sue capacità strategiche si rivelarono alla lunga inferiori: apprezzato in Parlamento per la sua eloquenza anche dagli avversari, splendido animale da comizio, capace di tenere un discorso diverso lo stesso giorno nelle varie località in cui si recava, rimase sempre soprattutto un tattico, privo di prospettive di largo respiro, incline piuttosto a quella che Beppe Niccolai bollò come “la pesca delle occasioni”.

I primi tre anni della sua segreteria furono ricchi di successi, anche perché in larghi settori della società italiana cominciava a diffondersi un moto di ripulsa per gli eccessi del Sessantotto e dell’autunno caldo. Almirante seppe sfruttarlo, con slogan che alludevano in certo qual modo all’esperienza squadrista (“aiutateci a difenderci”), ma cavalcando al tempo stesso il ribellismo del Mezzogiorno. I nodi vennero al pettine nel 1972, quando alle elezioni del 7 maggio il Msi-Dn non raccolse abbastanza suffragi per condizionare a destra la Democrazia Cristiana, ma ne raccolse a sufficienza per scatenare un’offensiva neo-antifascista, nelle piazze come nelle aule giudiziarie, che si sarebbe protratta per tutto il decennio. Emersero allora le contraddizioni di un partito barricadiero al Sud e al Nord organizzatore di cortei della “maggioranza silenziosa”. Il 12 aprile 1973, in cui l’agente di Ps Marino fu ucciso  a Milano da una bomba a mano lanciata da un manifestante nel corso delle proteste per il tardivo divieto di una manifestazione del Msi, segnò l’inizio di una inversione di tendenza che vide la crisi politica ed elettorale del partito.  Fu qui che Almirante rivelò la sua grandezza, in un ruolo che gli era congeniale: quello di leader di un partito assediato, i cui militanti erano assassinati impunemente, le sezioni messe a ferro e fuoco, per tacere della prolungata persecuzione giudiziaria. Quando si descrive – a ragione – l’esperienza di Mani Pulite come un’entrata a gamba tesa della Magistratura sulla scena politica, non bisogna dimenticare che la prima invasione di campo avvenne negli anni Settanta, con la persecuzione giudiziaria del Msi.

Per una valutazione serena dell’esperienza di Democrazia nazionale bisogna tenere presente questo contesto psicologico ancor prima che politico. Nencioni, Tedeschi, De Marzio, Cerullo, la Gatteschi, Roberti, il compianto Massimo Anderson e tanti altri lasciarono un partito assediato e minacciato, per cui il loro abbandono fu percepito – anche per qualche riflesso condizionato “venticinquelugliesco” – come un tradimento. Eppure la maggior parte di loro veniva dal fascismo e dalla Rsi, mentre altri deputati, che provenivano invece dall’esperienza monarchica, come Trantino, rimasero fedeli al Msi. Appropriandosi, grazie a un’interpretazione opinabile dei regolamenti parlamentari, della “cassa”, ovvero della maggior parte del finanziamento pubblico, gli scissionisti passarono agli occhi dell’opinione pubblica come la moglie che scappa con l’amante portandosi dietro l’argenteria. Sollevarono tematiche giuste – che sarebbero state poi riproposte nell’esperienza di An, per altro con qualche caduta di stile, – ma lo fecero nel momento e nel modo sbagliato. Di qui la disfatta elettorale delle liste di Democrazia Nazionale alle politiche del 1979, con la relativa eutanasia di una classe politica non priva di spessore. Si parva licet componere magnis, qualcosa di simile avvenne per i congiurati del 25 luglio: se Grandi, Ciano e magari all’epoca Balbo avessero messo alle strette Mussolini nel maggio del 1940, impedendogli di entrare in guerra con la Germania, il giudizio della storia sarebbe stato meno inclemente nei loro confronti.

Nel complesso, comunque, la scissione di Dn ebbe risvolti negativi ma anche positivi. Privò il Msi-Dn di molte belle intelligenze e di un buon settimanale fiancheggiatore come “Il Borghese” (il “Candido” conservava ormai poco delle passate glorie e degli antichi collaboratori, per il vizio di Pisanò di non pagare le collaborazioni; “Lo Specchio” di Nelson Page aveva già chiuso i battenti quando Andreotti aveva chiuso i finanziamenti). Inoltre favorì la “rimissinizzazione” e la radicalizzazione del partito, poco preparato, a parte forse la corrente di Mennitti, ad affrontare le sfide degli anni Ottanta. La diaspora di larga parte della vecchia guardia favorì però un ricambio generazionale con esiti a volte positivi. Basti pensare che l’abbandono di De Marzio lasciò campo libero in Puglia all’ascesa di un leader come Tatarella, il vero padre di Alleanza Nazionale, la cui purtroppo precoce scomparsa segnò la crisi di un progetto politico fino ad allora in grado di cambiare la sintassi della politica italiana.

Enrico Nistri

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Tags: Barbadillodemocrazia nazionaleenrico nistrigiuseppe parlatola fiamma dimezzatalunu editore

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Comments 3

  1. Guidobono says:
    2 mesi ago

    Gli autori della scissione erano politici navigati: come non si resero conto che si cacciavano in un cul-de-sac?

  2. Guidobono says:
    2 mesi ago

    I demonazionali cercavano uno spazio: peccato che tale spazio politicamente non esistesse!

  3. Iginio says:
    2 mesi ago

    Il padre – l’ideatore – di Alleanza Nazionale è stato Fisichella, non Tatarella.
    E’ imbarazzante come questo lapsus sia frequente a destra. Vuol dire che non si è imparato molto.

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