Da “I persuasori occulti”, saggio d’annata di Vance Packard, uscito nel 1957, il mondo della pubblicità ha subito profonde trasformazioni. Ieri a prevalere era la narrazione in funzione del prodotto, mentre l’analisi/denuncia puntava il dito contro le tecniche manipolatorie dell’industria pubblicitaria. Nel 1964, Herbert Marcuse, in “L’uomo a una dimensione”, arrivò a teorizzare il carattere socialmente condizionato dei bisogni umani, facendo dipendere i desideri “dal fatto che la cosa sia considerata o no desiderabile e necessaria per le istituzioni e gli interessi sociali al momento prevalenti”.
In seguito il messaggio pubblicitario è arrivato, con gli spot televisivi, ad invadere la programmazione ordinaria, venendo percepito spesso come una “prevaricazione”. Oggi – è cronaca del tempo covizzato – la pubblicità sembra spingersi oltre il prodotto che intende “veicolare”, arrivando a suscitare una nuova immedesimazione collettiva, della quale il prodotto è partecipe. Spesso con risultati inusuali rispetto alla vulgata corrente.
Ecco allora la banca che parla il linguaggio del territorio; l’elettrodomestico rigorosamente “made in Italy”; il condominio che si scopre comunità e “dialoga”, dai balconi, grazie alla sensibilità di una bambina; la catena di supermercati che pubblicizza prodotti a “filiera corta”; la grande azienda di gioielli che pone le madri, che hanno partorito durante la pandemia, come le eroine della sua storia; l’azienda di arredamento e mobili che ricorda alle persone i valori della casa e della famiglia.
Sono – in sintesi – messaggi indirizzati ad una sensibilità collettiva, spesso poco e male rappresentata dal mainstream, che chiede di essere riconosciuta e rappresentata. Da questo punto di vista il “messaggio” più che sovrastare il consumatore è orientato ad assecondarne i desideri profondi, le domande nascoste. Le ultime campagne pubblicitarie tentano perciò di essere coinvolgenti, di emozionare, richiamando all’attenzione, prima del prodotto, il “contesto”, nel quale si colloca il prodotto stesso.
Ad emergere è allora una sorta di nostalgia identitaria, ancora disorganica, priva com’è di un Centro ordinatore, ma che è comunque significativa di domande, di aspettative, di ragioni condivise che si pensavano dimenticate ed invece esistono, si insinuano come certe radici orizzontali, sotto la superficie della società, chiedendo di essere rappresentate.
In questo contesto la stessa “festa”, al di là dei fattori strettamente consumistici, ritrova un valore simbolico, familiare e comunitario, che è ben lungi dall’essere dimenticato nell’immaginario collettivo e che si scontra con le sottovalutazioni (se non con le derisioni) di certa informazione disincantata e saccente.
Ed allora ben vengano, anche negli abbagli consumatori, le luci per le strade, i palazzi illuminati, l’albero addobbato al centro dei paesi, i presepi nelle chiese, ma anche nelle sedi istituzionali più attente alla tradizione. Ben venga questo sovrapporsi di sacralità antica e di sapori, che si riperpetuano di generazione in generazione, di attesa e di stupore. Anche uno spot può arrivare a dirci che non tutto è perduto e che la battaglia della memoria, delle radici, dell’appartenenza può ancora essere giocata, facendo ben sperare sul tempo che verrà dopo la notte dell’emergenza sanitaria. Magari per ritrovare nella pubblicità – come ebbe a scrivere Francesco Alberoni – una sorta di “cinghia di trasmissione” fra cultura e consumi. E da qui ripartire per ripensare cultura e consumi, meccanismi identificativi e valori condivisi, fino a ieri sottovalutati ed oggi riconosciuti in più di un messaggio pubblicitario.
@barbadilloit