Una settimana fa il mondo piangeva la scomparsa di Diego Armando Maradona. In sette giorni, il cordoglio s’è consumato ed finito in una farsa domestica, piuttosto volgare dai risvolti polizieschi e giudiziari. Dovunque il Pibe de oro si trovi, non potrà che restare disgustato dalla danza macabra che si è accesa intorno alle presunte responsabilità della sua morte e dalla irriverente disputa attorno alla sua eredità. Medici e infermiere, mogli, compagne, figli e figlie, amici interessati ed ingenui membri della corte faraonica del Fenomeno, avvocati e periti, autisti di ambulanze e personale domestico assortito, una tribù insomma, si rinfacciano accuse allucinanti e su di ognuno ricadono massicce dosi di fango che seppelliscono perfino la memoria dell’estinto.
Non doveva finire così, ma era probabile che in questo modo andasse a finire. Tutta la tumultuosa vita di Maradona, del resto, è stata segnata da contrapposizioni feroci tra clan che si disputavano i suoi favori, da manager o presunti tali che a sua insaputa vendevano la sua immagine, ne gestivano frequentazioni e ne attizzavano le inimicizie, ci si meraviglia ora, dopo una morte che presenta indiscutibili lati oscuri, se Maradona deve subire l’onta della espropriazione della sua stessa fine per ragioni che nulla hanno a che fare con la sua volontà?
Saremmo a nostra volta ingenui se ci meravigliassimo di un epilogo tanto sconcertante: sopra i fiori e le casacche esibite del campione si affastellano ora le carte bollate, le accuse infamanti, le ipotesi più o meno credibili sulla sua fine solitaria e sull’ imperizia di chi avrebbe dovuto vigilare su di lui invece di lasciarlo solo, come si dice. Non ci sorprende nulla della vicenda extra-calcistica di Maradona. Segnato da un destino bizzarro e perfino crudele, si sarà rassegnato anche lui a vedersi nuovamente, e chissà per quanto, al centro di una tragica pièce affollata di attori che si lanciano accuse veementi dopo aver pianto un solo giorno il fragile uomo, già “mano de Dios”, la cui avventura terrena si è conclusa – se è vero quel che si mormora – nello squallore più assoluto di una dimora per ricchi, lontana dalla povera e malmessa Villa Fiorito, provincia di Lanus, dove nacque e, come sessant’anni fa, ancora non arriva l’acqua e le fogne sono indegne delle peggiori favelas sudamericane, un posto dimenticato dal quale l’uomo leggendario se ne andò via, il più lontano possibile, a celebrare i suoi trionfi.
Là, in un barrio esclusivo, denominato Tigre, l’ombra del corpo di Maradona si aggira per le stanze vuote, il giardino fiorito, le case abitate da anziani signori che vi trascorrono la primavera argentina. E la sua ombra chiama il medico curante e l’avvocato amico, coloro che che avrebbero dovuto vegliare sulla sua incolumità e misurargli i battiti cardiaci, gli affetti svaniti, probabilmente nascosti lontano, a centinaia di chilometri da quel posto per vecchi milionari, nella rutilante Buenos Aires spaventata dal Covid eppure effervescente. Ma non risponde nessuno. Forse sono rimaste una bottiglia di whiskey e tante scatole di psicofarmaci nei pressi del letto di Maradona che da giorni non si alzava, da quando dopo una caduta in casa, a pochi giorni dalle frettolose dimissioni dall’ospedale dove era stato operato al cervello, era precipitato in una sorta di deliquio, e nella sua solitudine moriva un poco alla volta senza che nessuno se ne accorgesse.
Lui, il più grande, il più amato, il più osannato, il più brillante interprete della poesia del fútbol, un eroe del “realismo magico”, figura borgesiana per eccellenza, poteva finire solo, disperato e stanco come un un povero cane di Villa Fiorito?
Non era scritto, neppure lo si ipotizzava quando i dèmoni della cocaina lo possedevano, che la sua morte sarebbe stata quella di un protagonista di un romanzo russo dell’Ottocento: Dostoevskij avrebbe potuto rappresentarlo, ma gli scrittori di cose calcistiche sudamericane, come Osvaldo Soriano o Eduardo Galeano, mai avrebbero immaginato un finale così triste, così “argentino” , per l’uomo che aveva esaltato le platee di tutto il mondo. E noi che abbiamo pianto vedendo scorrere le immagini di Dieguito centinaia di volte dopo l’annuncio del decesso, affrontiamo sconcertati questa commedia tragica animata da personaggi che hanno esibito il dolore e la felicità dell’uomo che ha vissuto molte vite, prevedendole, probabilmente, esclusa una: quella segnata dal disamore e dall’indifferenza.
L’infermiera che stazionava davanti alla stanza di Maradona da lui licenziata, ma “costretta” a restare dai familiari per controllare l’assunzione dei farmaci del paziente, ha dichiarato in merito alla caduta in casa, come riporta il Corriere della sera: “Ha battuto la testa sulla destra, il lato opposto a dov’era stato operato. Non un colpo forte. Però è rimasto tre giorni così, da solo. Rintanato. Non guardava nemmeno la tv. Nessuno che lo visitasse, l’aiutasse, gli facesse una risonanza magnetica. Nessuno che avvertisse la clinica Olivos. Lui non era in grado di decidere, ma sarebbe potuto andare nell’ospedale più lussuoso del mondo. Non fosse rimasto in quel luogo, inadatto, probabilmente non sarebbe morto”. Un’accusa terribile, agghiacciante.
Dopo le folle oceaniche che lo hanno pianto, Maradona “celebra” l’estremo suo funerale non in un tempio consacrato, lontano dalle bandiere delle sue squadre, nell’indifferenza di chi una settimana fa lo osannato in tutte le piazze dove la sua storia si è dispiegata, negli stadi vuoti d’Europa e d’America, ma tra le illazioni, le bugie, le mezze verità che senza pietà lo seppelliscono una seconda volta, in attesa che un esame tossicologico (anche questo ci mancava) racconti qualche brandello di verità.
Mi ricorda la sua vicenda altri calciatori, sudamericani perlopiù, che hanno avuto un destino analogo, dopo i trionfi dei giorni splendenti. Due in particolare: l’uruguaiano José Luis Andrade ed il brasiliano Mané Garrincha. Il primo, alcolizzato e povero, lo trovarono morto in un fetido vicolo di Montevideo aggrappato ad una scatola di scarpe contenente le sue medaglie: aveva amato ed era stato amato da Josephine Baker. Il secondo, se ne andò a quarantanove anni, campione del mondo, dopo aver dissipato se stesso, con la complicità di donne che lo divorarono e dell’alcool che lo consumò, in condizioni di indigenza e degrado, malato di cirrosi epatica e afflitto da un edema polmonare che fu il colpo di grazia infertogli da un destino crudele .
Distruttive passioni, diranno i moralisti. Ma ai geni e agli artisti non si applicano le categorie “borghesi”. Come a Maradona. Neppure la sua morte poteva essere silenziosa in un piccolo spazio. Sarebbe stato un controsenso; o meglio un non-senso per l’uomo che non ha vissuto neppure un attimo di vita normale.
Né genio, né artista. Un sottoproletario ignorante ed arrogante che mai ha cercato di migliorarsi, anzi ha lasciato prevalere per decenni gli istinti più beceri ed autodistruttivi. Morte coerente con la vita. Sprecando, ovviamente, il suo grande talento naturale. Ribelle, di che? Contro che cosa? Un cattivo esempio, sempre, ovunque, un mito fasullo, nulla si salva.